Ci sono “cose” che pur provando a pensare a una loro essenza o sostanza, reale o concettuale, sfuggono a una presa diretta. Esse appartengono al puro mondo immaginale, che non è frivola fantasia; mondo in cui – per dirla con il famoso iranista Henry Corbin – l’immaginazione gioca un ruolo di primo piano. Ma ciò è cosa nota: si pensi alla letteratura, all’arte, alla poesia.
Inoltre, capita di osservare che negli universi creativi, le “cose” non vengono mai nominate direttamente; che gli artefici ricorrono a sistemi evocativi, giocano di sponda, di lateralità. Insomma, il Gioco dell’arte – in tutti i suoi aspetti modali e umani, sembra quello di girare attorno alle cose, lavorando appunto di richiami, allusioni, metafore, koan, rituali e simbolismi ecc. E quindi, l’ente creativo, il fucinatore, il poeta, l’artista, non può fare altro che aprirsi sempre più consapevolmente al discorso, al linguaggio che – pur sosteneva Heidegger – resta l’unica dimensione in cui “dimora l’essere”.
Consideriamo ad esempio – tanto per farne uno a noi vicino – le più sofisticate operazioni concettuali di arte contemporanea: i mondi nascosti nelle parole cancellate da Emilio Isgrò o la dimensione tautologica di un “Neon elettrical Light English Glass Letters Pink Eight” di Joseph Kosuth, il mondo di Vincenzo Agnetti con i suoi “Libri dimenticati a memoria” e le “Fotografie eseguite a occhio nudo”, o l’idea contenuta nella “linea infinita” di Piero Manzoni.
Pensiamo al “gioco” delle Città invisibili di Italo Calvino, in cui le metropoli esprimono l’universo noetico di Marco Polo, vero e proprio inno all’immaginazione; per non parlare delle Cosmicomiche in cui l’io narrante si chiama Qfwfq di cui – chiarisce Calvino – “Altro non si sa…non ci viene mai chiaramente detto com’era, ma solo che c’era…non è nemmeno un personaggio, è una voce, un punto di vista”.
Puri concetti, in stand by tra empirismo e astrazione; “idee”, elaborate in vista di un indicibile – “un’inframince”, avrebbe detto Duchamp – che, per l’appunto, sfugge a quella presa diretta percettiva che nella vita crea razionalità e stabilità concettuale.
Dunque, nell’arte e nella poesia, come si evince, le “cose” vanno diversamente. Lo sa bene Lello Voce che con il suo “Razos”, pubblicato da La Nave di Teseo, si è cimentato nella straordinaria impresa di scrivere un libro di poesie senza poesie. Che di per sé – già il suo stesso concepimento – è annoverabile a una operazione concettual-poetica di notevole rilevanza. Operazione riuscita pienamente, a nostro avviso, a cui vivamente rimandiamo il lettore interessato.
Vera forza della natura, Lello Voce è uno dei pionieri europei dello spoken word e della spoken music; il primo poeta, tra l’altro, ad introdurre in Italia il poetry slam (anche se lui ama definirsi semplicemente poeta). Autore di un’ammirevole “Piccola cucina cannibale”, insieme ai musicisti Paolo Fresu, Frank Nemola, Michael Gross, Luca Sanzò, Antonello Salis, Maria Pia De Vito, Rocco De Rosa, Stefano La Via, Canio Loguercio e all’artista Claudio Calia (Squilibridi 2012); nonché l’indimenticabile “Cristo Elettrico” (Transeuropa 2021), vero spaccato sul degrado spirituale e sociale di un Enrico tossico acculturato, un romanzo che – a giudizio di Angelo Guglielmi – “si affida a un linguaggio straordinario”.
Lello Voce, con i Razos, parte prendendo dichiaratamente spunto dalla forma dei commenti retorici trobadorici della lingua d’oc del XII secolo, dei Razò o Razos appunto, spiegazioni che accompagnavano con musiche le raccolte di liriche (canzonieri) e che lo stesso Dante poi utilizzerà nella Vita Nuova. I temi sono molteplici accompagnati dalle “esortazioni” e “raccomandazioni” del poeta che, con velata ironia, introduce il lettore nell’universo delle sue poesie senza poesie.
Freddo, senza immagini, versi cancellati, buco, energia, poesia cieca, corpo, nata prima, poesia orfana, pericolo, contaminazione, nessun valore di scambio, stanchezza, sono alcuni soggetti dei suoi componimenti mossi da un “trobar ric” che affascina il lettore guidandolo con sapienza negli aspetti più imprevedibili della poesia non poesia, che diventa limpido carme.
«C’è un enorme buco – scrive Lello Voce – al centro di questa poesia. Attorno a questo buco le parole si dispongono con andamento frattale e sfrangiato e così non è possibile comprendere quando termini un verso e ne cominci un altro. Ma questo non è un problema, perché tutto il ritmo della poesia è nel vuoto del buco intorno a cui vibra la poesia. Tutto ciò che manca in questa poesia si fa ritmo, il suo mancare dà il tempo a ogni respiro. Questo respiro è veloce come un vento di primavera e se si accostano le labbra al testo è possibile sentire il suo soffio. Ed è allora che si percepisce chiaramente come questo buco sia solo un’illusione ottica grammaticale. Un miraggio. E come il soffio sia solo il respiro del lettore».
L’autore di Razos completa questa raccolta singolare con diciassette madrigali muti; diciassette come i lati dell’eptadecagono a cui si ispira in “Indimenticabile notte cretese, passata tra luna, mare, internet, astrusità numerologiche, raki e tante sigarette”; quel poligono – la cui costruzione – Carl Friedrich Gauss nel marzo del 1796 riuscì a realizzare, riga e compasso alla mano, grazie alla sua mente che vogliamo immaginare creativa e poetica oltre che scientifica.
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