Georg W. Bertram, esponente di punta della filosofia dell’arte contemporanea presso la Freie Universität di Berlino, in un suo celebre saggio, affermava che l’arte può essere intesa come «Una prassi umana in rapporto alle altre» e che serve all’uomo per una continua «Ridefinizione di sé stesso». L’arte ci aiuta a ricollocarci, a riposizionarci nel mondo e nella forma di vita che ci siamo dati o che abbiamo ereditato. In definitiva – sostiene Bertram – si tratta di una “prassi riflessiva”.
Ma si sa che le linee di comportamento cambiano, le pratiche mutano in tutti settori; alcune rimangono, vengono conservate, altre accantonate o progressivamente migliorate. Anche la “pratica” dello sperimentalismo scientifico e tecnologico ha mostrato i suoi inesorabili cambiamenti, al punto che per la scienza e per la tecnologia non si fa altro che parlare – nel bene e nel male – di evoluzione. Naturalmente, il concetto di “evoluzione” non è applicabile all’arte e alle sue pratiche, ai suoi medium. In arte l’unica “evoluzione” di cui si può parlare è quella dello spirito; vale a dire, la capacità di vedere e far vedere altre connessioni possibili, creare mondi di sensibilità e nuovi punti di vista.
Lo sviluppo della coscienza estetica – e oggi diremmo estetica-filosofica – prassi riflessiva, può compiersi attraverso le più disparate modalità operative e i medium più “tradizionali”. E per quanto riguarda questi ultimi non è del tutto fuori luogo affermare che l’idea che la pittura -come prassi operativa- sia cosa morta, appartenente al passato, è del tutto ingenuo e fuorviante; stessa cosa per la pratica del disegno, che a fronte dei nuovi mezzi a disposizione che la realtà tecnologica offre agli artisti contemporanei (grafica computerizzata, iPad e quanto altro), sembrerebbe essere veramente relegata ad un’altra epoca.
Al contrario, quando i medium tradizionali vengono rivitalizzati dallo spirito critico e sensibile dell’artista, dal suo sguardo indagatore e dalla sua capacità tecnica, allora il miracolo dell’arte si rinnova di volta in volta, anche se tra le mani l’artista si trova una semplice matita. E un segno tracciato con la matita, morbida, dura o grassa su particolari supporti cartacei o altre materie, non ha paragoni rispetto alle fredde linee e superfici costruite dai pixel sullo schermo del computer. E questo è un particolare punto su cui varrebbe la pena riflettere seriamente, poiché la pratica del disegno, con tutte le sue possibilità e modalità creative, costituisce un arricchimento insostituibile, un balsamo per l’anima dell’artista e del fruitore.
Ne sa qualcosa Nazzareno Guglielmi, autore del volume “Il disegno ha un’anima. L’anima del disegno”, presentato di recente alla Casa degli Artisti di Milano con un’introduzione di Susanna Ravelli, e i relatori Francesco Tedeschi e Giorgio Verzotti.
Il libro, precisa Vera Vita Gioia nella breve prefazione, si presenta come «Un dialogo interiore, una pratica mistica, una prova di sapienza tecnica e teorica…. Si legge così, come una raccolta di poesie o di aforismi». E in effetti Nazzareno Guglielmi mette bene in luce la fondamentale importanza del disegno come dimensione spirituale e concettuale, volta a un sentire e a un pensare più profondi. Egli non tralascia di raccontare al lettore tutte le azioni che si compiono nell’usare gli strumenti di questa pratica, mettendo continuamente in gioco la sua soggettività, nelle scelte dei mezzi adeguati e negli orientamenti tematici. E diciamo pure che nello scorrere dei vari brani si avverte il piglio benefico dell’autore volto a una costante osservazione, quasi “scientifica”, che passa in rassegna tutto ciò che riguarda l’arte del disegnare: dal rumore del tratto, al movimento della punta, all’uso della gomma, alla scelta dei supporti, il peso della mano, del cuore e del respiro, la dinamica dell’occhio.
Infatti, scrive Guglielmi «Il pensiero dell’occhio deve chiudere il circuito tra cervello, braccio, mano, matita e punta della matita. L’occhio ha la straordinaria capacità di razionalizzare in modo silenzioso ed equilibrato il risultato del processo creativo». Insomma “in una punta di matita c’è il mondo” da cogliere con la giusta dose di silenzio e con la giusta temporalità, perché non ci si illuda che sia sufficiente il solo guardare. «Lo sguardo rivolto al modello – sottolinea l’artista – deve essere analitico, interpretativo e introspettivo. L’occhio deve reagire, il pensiero decodificare e vedere oltre la superficie che contiene la materia dell’oggetto. La curiosità ha l’obbligo di non porsi domande sulla durata dell’operazione successiva, un minuto, un’ora o una notte, non importa».
E dunque, il soggetto-artista è pienamente in campo. Come direbbe Hans Belting, professore emerito di Storia dell’Arte e teoria dei media presso la Hochschule fur Gestaltung di Karlsruhe: «Il soggetto osservatore, ponendosi davanti al quadro, rivendica una posizione dalla quale appropriarsi del mondo sotto forma di immagine» (I canoni dello sguardo. Ed. Bollati Boringhieri 2010, pag.208).
È interessante notare a questo punto come sia delittuoso il pensiero di poter fare a meno di questa straordinaria pratica (o di relativizzarla in base ad una riduzionistica formulazione errata del concetto di arte), in cui il soggetto è coinvolto totalmente e non soltanto concettualmente, come spesso accade con diverse modalità operative, in cui la ‘presenza’ dell’artista e il corpo a corpo con l’opera è smorzata, o addirittura annullata da terzi, coinvolti nella realizzazione di un’opera basata essenzialmente su una pura “idea”. Ma questa è un’altra storia.
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