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Novità dalla narrativa coreana: il romanzo di Bae Suah che racconta una Seul allucinata
Libri ed editoria
di Lara Gigante
È estate a Seul e la città, rarefatta dal caldo e dall’umidità, sembra respirare affannosamente insieme ai suoi abitanti. Perennemente soffocato dall’afa, il paesaggio urbano si svela magmatico e metafisico, con i suoi edifici in cemento, le strutture in ferro e vetro, mentre l’asfalto si trasforma in un enorme «braciere ardente». Una giungla urbana che acuisce il senso di alienazione e disorientamento, in cui ci introduce Ayami, la protagonista di Notti invisibili, giorni sconosciuti, di Bae Suah. Il romanzo della scrittrice sudcoreana, tradotto in italiano da Andrea De Benedittis, è alla sua seconda edizione (2024), per add editore, nella collana “Asia”, preziosa miniera in cui addentrarsi, per conoscere le profondità politiche, storiche e culturali di un mondo percepito ancora distante, eppure non più così. Tratto distintivo, le copertine illustrate dal segno inconfondibile di Lucrezia Viperina.
La narrazione principia proprio dalla notte, la fine nella linearità umana del tempo, per allacciarsi al mattino seguente, in un unicum di circa ventiquattro ore. Ayami, un’ex attrice che lavora in un teatro sonoro a Seul, vive l’ultimo giorno di lavoro e di attività del luogo, senza sapere che quello sarà il momento in cui la sua vita cambierà irreversibilmente. Un termine e un principio sembrano termini sufficienti all’autrice per dilatare le vicende che pur si svolgono in maniera contigua, in uno spazio altro, disorganico e frammentario. Il confine tra il sogno e la realtà si assottigliano fin dalle prime pagine, tanto che la stessa Ayami sembra vagare per la città come un fantasma, vestita dismessa e intrisa di solitudine. «Aveva indosso un vestito tradizionale bianco, d’un cotone grezzo, senza alcun orpello e che, peraltro, emanava un intenso odore di amido».
Costantemente accompagnata da un senso di smarrimento, il suo viaggio nella notte di Seul, tra le strade, i luoghi del teatro, il piazzale dell’autobus, si intrecciano con visioni oscillanti tra la realtà e l’allucinazione, favorita da un’afa insostenibile: «Nel pieno dell’estate, l’aria, più bollente della temperatura corporea, si trasformava in proiettili (..) questi invisibili cristalli di piombo laceravano la pelle e perforavano la carne, ormai in combustione». La distopia, qui, fa da proscenio alle dilatazioni narrative, diventando cornice funzionale all’intreccio. «Lì dentro il caldo lievitava e si espandeva come in una palude, fino a indurre uno straziante stato allucinatorio della mente chiamato “morbo monsonico” (..) calda come un tocco di carne bollente e più pesante e umida di una coperta pregna d’acqua».
Lambendo generi e leitmotif, affiorano alcuni toni del giallo: la morte di un personaggio, traccia di un mistero che però non si risolve mai e che non ha bisogno di essere svelato. L’autrice non offre intrighi avvincenti e possibili risoluzioni, esplora, piuttosto, l’essenza della condizione umana nella sua esacerbante e placida solitudine. Nei panni di Ayami, il lettore cammina al confine tra la vita e la morte, tra la realtà tangibile e l’allucinazione. Il mistero, formalizzato dai fatti, è infatti radicato nell’esperienza di Ayami, intenta a orientarsi in un mondo che non ha più punti di riferimento definiti e oscilla, tra il teatro, la casa dell’insegnante di tedesco, la sua stessa dimora e la mostra di fotografie dove incontra il poeta.
Liminale alla dimensione onirica, quella sonora che permea l’intero romanzo. Il teatro in cui Ayami lavora è dominato da una “ombra sonora “che sembra provenire da un altro piano di esistenza. Frammentato come il tempo, quasi di bergsoniana memoria, aleggia nel teatro “una litania sommessa”, riferimento fisso nella narrazione, ubiquo nei luoghi attraversati da Ayami, interferenza radio che, per ragioni insormontabili dalla logica, non si può spegnere.
Frontiera tra sogno e realtà: il corpo, quello della città magmatica e, soprattutto, quello dei personaggi che appaiono tra memorie di incontri e probabili allucinazioni. Dalla signora che osserva il teatro dall’esterno con le sue gambe scarne, scoperchiate da un vento impercettibile, all’amica del direttore che insegna tedesco. Una fisicità che rivela aspetti vulnerabili annidati in ogni piccolo gesto, della stessa Ayami: «I suoi folti e neri capelli erano raccolti dietro la testa e sotto i lembi della gonna spuntavano le dita dei piedi infilati in dozzinali sandali di canapa intrecciata» o disturbanti come il venditore ambulante che viene a cercarla a teatro: «Le sue folte sopracciglia, d’un nero intenso, sembravano ragni che si contorcevano su se stessi. (..) Sul viso scarno dell’uomo spiccavano le orbite profonde come caverne e la bocca segnata da labbra disidratate. (..) Sul suo corpo erano scolpiti molti simboli silenziosi di infelicità, tutti segnali tipici di un fallito».
Non solo un viaggio personale: dall’individuale all’universale, il romanzo di Bae Suah condensa anche elementi afferenti al contesto sociale e storico di cui è imbevuta e di cui anche l’aria sembra avere memoria. Le tensioni politiche, la paura e le incertezze legate alla vicinanza con la Corea del Nord. Mai esplicitamente al centro della narrazione, i segni di un passato recente di oppressione e paura si fanno sentire nelle pieghe del racconto. «Quella notte era stato imposto il coprifuoco. Dopo la mezzanotte era severamente vietato accendere qualsiasi tipo di luce e anche la circolazione delle auto fu fortemente limitata». Il senso di un imminente pericolo avviluppa il quotidiano di Ayami, dove convivono tensione e normalità apparente; il senso di incertezza diventa, così ,il sottotesto di un’esistenza in cui le risposte non sono mai definitive. La scrittura, fluida ed evocativa, si fa veicolo di una riflessione sulla realtà in stato di dissolvenza, sulla memoria preda di oblio e su una ricerca di senso, che non arriva mai a una conclusione definitiva.
Un romanzo di confine, che porta al centro la negoziazione tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto, minando la solidità di ciò che crediamo di conoscere di noi stessi e del mondo che ci circonda. Con un’opera sincretica, avulsa da definizioni di genere, i livelli narrativi scivolano l’uno dentro l’altro; così, il surrealismo trova forma compiuta nell’introspezione, riaffiora come riflessione ontologica dell’essere, sullo scenario in liquefazione, di una città soccombente alla clisi climatica. Bae Suah ci offre un’esperienza letteraria trasformativa, in un viaggio senza mappa, nell’attesa di una rivelazione che non giunge mai.