Preconizzando il diletto di coinvolgenti risonanze sinestesiche, abbiamo accolto con vivo interesse l’invito a recensire l’ultimo libro dello storico dell’arte e critico musicale Paolo Repetto (Acqui Terme, 1965), “Il canto della luce”, una corposa raccolta in forma diacronica di scritti di argomento artistico – dagli antichi egizi ai contemporanei – il cui titolo richiama il lungo capitolo dedicato alla vita e all’opera di Claude Monet, uno dei protagonisti della rivoluzione impressionista. Ne estrapoliamo un brano che ci ha particolarmente colpito, ispirato dalla serie pittorica delle cattedrali di Rouen; un passo denso di immagini, esemplare dello stile sensuoso dell’autore: «Un solenne monumento di pietra. Una forma intarsiata di luce. Un pulviscolo sonoro. Un brulichio di pigmenti che compongono e scompongono, smontano e rimontano un sogno gotico. Una vibrante membrana di un tamburo medievale, dove Monet ha eseguito il suo gamelan: una fitta polifonia ritmica dove i colori si trasformano in timbri, in suoni di una musica statica e fremente, modale e impressionista».
Sotto la specie di un’apparente antinomia percettiva, la sinestesia sembra sussurrarci che unica è la fonte sorgiva da cui si diparte il complicato intreccio sensoriale prima di tuffarsi nel caotico diorama della vita. Il grande musicologo visionario Marius Schneider ha scritto pagine poeticamente erudite sull’origine foto-acustica della creazione ed ha rintracciato, nella lambiccata texture del visibile, gli indizi del suono mineralizzato effuso dal canto di luce primigenio. Ci viene in mente, a questo proposito, un articolo, comparso una trentina d’anni fa sulla prestigiosa rivista scientifica Phisycal Review Letters, che descrive la singolare scoperta sperimentale di tre fisici americani: una bolla d’aria confinata in un’ampolla, se sottoposta a violente pressioni acustiche, emette brevissimi impulsi di luce. Ma c’è un limite oltre il quale la scienza non può spingersi, e allora deve convertirsi in arte, come intuì un altro grande visionario: Friedrich Nietzsche, il profeta dell’Übermensch.
Visitiamo le pagine del libro, suddiviso in capitoli monografici, immaginando di trovarci in una di quelle rare quadrerie seicentesche che ancora sopravvivono negli austeri palazzi gentilizi, ove un dipinto è attiguo al successivo ed il nesso causale dell’allestimento è tutto nel capriccio estetico del collezionista. Ecco venirci incontro Jan Vermeer dallo “sguardo taoista” che, con la sua poetica della semplicità, irradia di luce sapiente scene domestiche di vita consueta. Poco discosto, il sommo Goya dalla straordinaria potenza immaginativa, in grado di illuminare i mostri che popolano i recessi dell’animo umano. E poi ancora Egon Schiele, dall’erotismo terreo, nodoso, asfittico. E “il muratore dello spirito” Carlo Carrà («Minatore dell’arte, con il suo pennello/piccone Carrà ha scavato in molte miniere timbriche e cromatiche»), affiancato da Bruno Munari, “la reincarnazione del dio Hermes”, il dio della leggerezza e del gioco («Come il dio Hermes, egli sapeva che tutto è doppio, tutto è paradossale, e infinite sono le possibilità inventive nel mondo»). Tutti gli altri, con cui ci siamo proficuamente dilettati – e sono il maggior numero – li tratteniamo nella penna (o meglio, nel mouse) e volentieri lasciamo ai lettori la curiosità e il piacere di scoprirli.
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