Categorie: Libri ed editoria

Partire per ricostruire: intervista a Cecilia Maria Giampaoli

di - 2 Luglio 2020

È nata nel 1982 in una piccola città del Centro Italia. Ha studiato musica, illustrazione, fotografia, animazione, scultura e grafica. È interessata agli archivi e alle storie: alle situazioni che accadono dentro e fuori di lei. Le racconta con gli strumenti che ha imparato a usare e attraverso la scrittura: il più sinestetico dei linguaggi.
Il progetto di cui ci parla è stato presentato per la prima volta, in fase di ricerca preliminare, l’11 maggio 2014, in occasione di un piccolo festival di filosofia a Pesaro. Il titolo della serata era Traiettorie di ricerca nel progetto artistico.
Gli eventi della vita posso travolgerti, attraversarti, trasformarti. La morte di un padre può determinare un viaggio, mille viaggi. Basta non perdere l’obiettivo.
Cecilia Maria Giampaoli parte a 31 anni per le isole Azzorre e vuole sapere. Ricostruire la parte mancante di una vita che, quando aveva sei anni, la divide per sempre da suo padre. Un disastro aereo, pochi attimi e l’infanzia la mordi, non la vivi più soltanto.
Azzorre è il suo primo romanzo, candidato già a numerosi premi: John fante, Megamark, Stresa, Comisso, Napoli, Flaiano, Città di Como, Rapallo, Massarosa.
Il libro è uscito il 19 giugno 2020 per Neo Edizioni ed è tratto da una storia vera: nulla di ciò che leggerete vi lascerà indifferente.

Cecilia Maria Giampaoli, foto di Alessandro Zanoli

Il disastro delle Azzorre e la memoria

Il tuo libro “Azzorre” trova radice in una storia vera, quella della tua famiglia. L’8 febbraio 1989, alle ore 11, il boeing 707 della Independent Air parte dall’aeroporto di Orio al Serio per Santo Domingo. Su quell’aereo, che precipiterà, c’è tuo padre e tu hai solo sei anni. Come cambia la tua vita da quel momento?
«Il motivo della mia partenza per le Azzorre è stato proprio il fatto che è tanto difficile rendersi conto dello spartiacque, quando un evento così drammatico accade in un’età tanto prematura. Non riesci a capire appieno come saresti stato, se questo evento non fosse mai esistito. Sicuramente aveva determinato parti del mio carattere. Prima di partire per questo viaggio, non sapevo ancora bene se fossi cambiata in meglio o in peggio. Da bambina ero molto profonda con un forte senso di malinconia, che mi ha caratterizzata per tutta la vita».

Di tuo papà che cosa sei andata a cercare, in questo viaggio?
«Sono andata a ricercare quei tasselli mancanti che la memoria non ha raccolto, perché era troppo poca, vista l’età che avevo quando papà è scomparso. Ho un elenco di quindici ricordi autentici di lui e poi tutto il resto è costituito da una serie di racconti e testimonianze di altre persone o immagini tratte da filmini in VHS. Ho cercato quindi di colmare la parte a me mancante, dando una rappresentazione più umana della figura di mio padre, staccandola dall’immagine idealizzata del ricordo. Il viaggio che ho compiuto, e che racconto in “Azzorre”, si è basato su questo: cercare di restituire una forma più terrena del mio papà».

Il tuo libro, però, racconta almeno di due viaggi, non di uno soltanto. Quello del ricordo, realizzato da tuo padre, e quello del presente vivo, realizzato da te. Il primo mirava a Santo Domingo e la cronaca ci ha raccontato il suo epilogo. Il secondo – il tuo – ha puntato dritto alla verità. Ci sei riuscita?
«Quando ho compiuto il viaggio alle Azzorre avevo 31 anni e mi ero già riappacificata con quanto accaduto. Non sono partita con l’intento di trovare pace, perché era già in me. Invece, per quanto riguarda la verità, avevo già un’idea di quanto fosse realmente successo e non volevo fare un’inchiesta. Mi interessava, in realtà, mettermi di fronte alla verità, filtrarla, attraversarla e trasformarla poi in qualcos’altro. È stato come lasciarsi portare da un’onda unica di eventi che accadevano misteriosamente. È stato toccante: una sensazione che ho portato con me anche nel viaggio di ritorno. Sull’isola è come se fossi vissuta nel regno del mago di Oz: entrare in dimensioni magiche per mettere a fuoco la realtà».

L’Eco di Bergamo, 1989

La storia che racconti è costituita da un susseguirsi di eventi che si rincorrono. Che rapporto hai con la causalità? Credi che sia l’uomo a determinare gli eventi o sono gli eventi a determinare l’uomo?
«Questo è un tema che mi interessa molto e non posso ovviamente dare una risposta certa. Però nel libro si evince con chiarezza un dato, qualcosa che mi è accaduto sull’isola. Me lo ha fatto capire uno dei personaggi di cui parlo all’inizio del libro: in un’isola è facile accorgersi come tutte le cose siano collegate l’una all’altra. Infatti, in un contesto chiuso e piccolo, circoscritto, il riverberare degli eventi l’uno nell’altro è evidentissimo. Lì non si sfugge. Poi c’è chiaramente il libero arbitrio che ti fa scegliere di inserirti in un ciclo di episodi da cui ad un certo punto ripartirà un’altra serie di cose».

Un diario: così definisci la tua opera Azzorre. Affermi di non riuscire ancora a chiamarla romanzo. Perché?
«Romanzo come parola serve, perché dà una collocazione precisa. Però fatico un po’ ad usarla, perché so cosa c’è stato dietro la sua nascita. Non sapevo cosa sarebbe successo, quando sono partita per le Azzorre. Ho scritto tutto il libro in viaggio, ad eccezione dell’ultimo capitolo, nato al ritorno. Questo non vuol dire che non abbia riletto e tolto il superfluo. L’operazione di “ripulitura” c’è stata di certo, ma tutto quello che è successo è stato scritto lì. Quindi io non ho dominato la storia come uno scrittore di romanzi, perché in realtà non sapevo cosa sarebbe accaduto dopo il mio viaggio e il mio scrivere in loco. Per questa ragione mi risulta difficile adoperare la parola romanzo. Preferirei dire reportage narrativo».

Lo scrivi nel libro: «Quel giorno ho imparato a scrivere le parole con sco e sca, come mosca, scala, scolaro e biscotto. Lo so perché ho ritrovato il mio quaderno: “Pesaro, 8 Febbraio 1989, esercizio: completa le parole”. Non sapevo nulla di aerei, manovre di atterraggio, rotte, isole, montagne e torri di controllo». Oggi, a più di trent’anni dalla scomparsa di tuo padre e dopo il viaggio da te compiuto, quali parole pensi di avere imparato o rivalutato?
«La parola che ho rivalutato è stata trasformazione. Ho capito che nulla in realtà si distrugge, neppure il dolore, ma di certo puoi trasformarlo».

Azzorre di Cecilia Giampaoli

E al concetto di trasformazione si collega anche quello di transitorietà, che tu indaghi non solo come autrice ma anche come artista, occupandoti di fotografia, grafica e rilevando anche un particolare interesse per il potenziale figurativo delle parole. Per scrivere Azzorre oltre cosa sei andata?
«Io ho un background tradizionalista, perché ho radici nella grafica d’arte. In Italia, purtroppo, un ambiente professionale piuttosto chiuso. Quindi uscire da questa idea di realizzare una stampa, un lavoro grafico, per me è stata una grandissima svolta. È stato fondamentale iniziare un lavoro progettuale che non partisse da quei presupposti, ma che andasse a “pescare bene” in altre dinamiche sia personali sia progettuali. Il vero salto di Azzorre è stato proprio questo: avere il coraggio di considerare un progetto artistico qualcosa che apparentemente potesse non sembrarlo».

Ci sono due tuoi progetti artistici collegati ad Azzorre che nascono prima del libro: This home in not a temple, presentato a Pesaro nel 2019 al 55° Festival del Cinema, e Suoni per un reportage, progetto sviluppato tra il 2015 e il 2017 insieme al compositore e polistrumentista G.G.G. Tartaglia.
«Il lavoro presentato al Festival del Cinema ha come soggetto la ricerca della memoria mancante di mio padre. Ingloba il libro ma non lo ricalca: raccontare una storia collettiva a partire dalla memoria privata. L’idea era dunque quella di mostrare un documentario in fase di realizzazione. L’ho realizzato nel mio studio, che si trova sotto la casa in cui sono cresciuta. Per il mondo dell’arte visiva ne è nato una sorta di site-specific e per me è stato difficile, un’operazione complessa rispetto a quanto immaginato all’inizio: da una parte arrivavano nel luogo registi, addetti ai lavori che davano del progetto una restituzione professionale e dall’altro arrivavano zii, cugini, parenti che nelle foto e nei filmini vedevano persone conosciute di famiglia, tirandone fuori una sorta di compatimento. Questa è stata la parte più dolorosa. Nel secondo caso, nel progetto Suoni per un reportage curato con Tartaglia, si è trattato di un adattamento testuale, prendendo molto dal libro Azzorre. Tartaglia lo ha accompagnato a livello musicale e sonoro, ma in modo non decorativo. Un lavoro molto emozionante».

Fermiamoci allora sulle emozioni e parliamo della copertina del libro. Una bimba che guarda dritto nell’obiettivo di chi sta scattando la foto. Uno sguardo vivo e penetrante. Eppure qualcosa viene trattenuto. Quella bimba sei tu. Dov’eri in quel momento e chi c’era dietro la macchina fotografica?
«La foto è stata scelta alla fine del lavoro editoriale, dopo un lungo confronto. È stata scattata da mia madre l’anno successivo alla morte di mio padre. È stata scelta perché racconta bene – almeno per me – il momento di passaggio tra il prima e il dopo la tragedia. Lo sguardo è vivo ma c’è un sentimento ibrido nel volto della bambina. Racconta cosa le era caduto addosso: una bambina capace di trasformare gli eventi dolorosi con il senso di leggerezza tipico dei piccoli, ma dall’altro la consapevolezza di un carico emotivo che ti porterai per sempre dentro. Un dettaglio interessante è che in quel momento dello scatto stavo tagliando i capelli a caschetto. Io ho sempre portato i capelli lunghi. Li ho ritagliati in quel modo, solo quando, ormai grande, ho deciso di partire per le Azzorre. Io volevo in copertina una foto vera, aderente al senso del progetto. Non c’era e non c’è la volontà di essere autoreferenziale o voler stare a tutti costi in prima linea».

Facciamo un confronto. Il tuo viaggio raccontato nel libro inizia con una fermata a Lisbona e l’immagine dell’impronta della cinghia delle valigie sulla tua mano. Oggi qual è l’impronta – metaforicamente parlando – che vedi sulle tue mani?
«L’età adulta, questa è l’impronta. Avere accettato la maturità, dopo quel lungo tempo in cui si è cercato di far combaciare con la parte cresciuta quella parte bambina rimasta congelata dentro».

Nata a Giulianova nel 1978 è docente di Lettere, giornalista e critico d’arte. Laureata presso la Facoltà di Lettere dell’Aquila, si specializza alla Luiss di Roma in Management culturale. Collabora con il quotidiano di Teramo La Città, in vendita nelle edicole in allegato a Il Resto del Carlino. Per la Di Felice Edizioni dirige la collana d’arte Fili d’erba, e collabora con la Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture di Castelbasso. Su Radio G Giulianova cura la rubrica d’arte Colazione da Alessandra.

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