«Fin dall’inizio del secolo, il restringimento delle zone inesplorate sulla carta del mondo ha reso lo spirito meno infatuato d’avventura e meno sensibile alla sua bellezza, per inclinarlo verso la ricerca della verità degli esseri. Capire le culture fu allora più gratificante che scoprire nuove terre. L’etnografia occidentale si è strutturata a partire da questo bisogno. Ma vedremo che forse il verbo «capire» ha qui un senso pericolosamente repressivo.»
In un 2020 all’insegna della privazione di contatto, dei confini chiusi e di un paura generalizzata di qualsiasi cultura in cui non vi sia pieno riconoscimento a priori, il dubbio insinuato da Édouard Glissant in Poétique de la Relation, circa l’accezione della parola “capire”, suona quasi come una profezia. Ormai trent’anni fa, il filosofo introduceva così la propria visione del moderno processo conoscitivo da parte dell’Occidente: fuori da qualsiasi reale logica di contatto, relazione e arricchimento. È quello stesso stesso dubbio che sembra aver voluto sfidare Luca Vitone con il suo viaggio di quarantatré giorni da Bologna a Chandigarh in auto, tra maggio e luglio 2019. La spedizione dell’artista era guidata dalla volontà di ripercorrere a ritroso le rotte migratorie delle popolazioni rom e sinti tra VIII e
XIV secolo, dall’India nord occidentale all’Italia. Questo viaggio, che sotto il nome di Romanistan darà vita a un libro, a un film e a una mostra a cura di Cristiana Perrella e Elena Magini presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci (15 marzo 2020), si delineava con poche ma chiare parole d’ordine: contatto, relazione, arricchimento.
Il titolo Romanistan si rifà al possibile nome dello Stato immaginario, tanto vasto quanto astratto, della cultura romaní. Una cultura dalla storia millenaria che, non definendo il proprio senso di appartenenza attraverso limiti geografici, ha cercato patria in ogni dove, basando la propria sopravvivenza sulla capacità di adattamento – seppur mai di omologazione – ad altre comunità. Da sempre interessato al concetto di luogo, e a tutte le declinazioni che esso può comportare, Vitone si propone con Romanistan di analizzare quella lunga migrazione attraverso un’esperienza diretta e umana che sembra non possedere le coordinate dell’etnografia moderna di cui parla Glissant. L’artista genovese suggerisce, infatti, una visione dei popoli rom e sinti che non contempla un racconto a priori e ne scansa l’idea di emarginazione e diversità a cui l’Europa è abituata. Tappa dopo tappa, Luca Vitone incontra membri della borghesia intellettuale romaní, sedentari, integrati e colti, evidenziando sottilmente come essi rappresentino una
fetta consistente della propria comunità.
Nel corso dei mesi successivi al viaggio, questa intensa esperienza ha trovato formalizzazione attraverso numerose opere, capaci di toccare i diversi piani di lettura dati da Romanistan. Tra di esse, la pubblicazione svolge il ruolo di collante e prezioso diario di bordo, permettendo al lettore un’analisi intima e potenzialmente infinita di quei quarantatré giorni. Dopo le introduzioni dell’artista e di Cristiana Perrella, atte a fornire pochi ma chiari strumenti per seguire la tratta, il libro assume infatti forma diaristica per mano di Daniele Caspar, uno dei compagni di viaggio dell’artista.
Assieme all’ampio apparato di immagini che scandisce il viaggio, sono quindi note quotidiane a delineare le tappe. Così, nel caotico succedersi di città, scenari ancestrali e incontri, il viaggio di Luca Vitone prende forma nella mente di chi legge e invita alla partecipazione:
«Ci trasferiamo a Zagabria e piove per tutto il tragitto. Incontriamo qui Veljko Kajtazi, ex karateka oggi al suo terzo mandato nel parlamento croato. […] Veljko indossa la sua divisa da parlamentare. Si presenta con un completo di buona stoffa grigio antracite, la camicia bianca, le scarpe nere, una cravatta setosa di colore rosso scuro. Le sue grandi mani da lottatore esibiscono una accurata manicure.»
In questo viaggio, e nel suo resoconto in 192 pagine, l’artista mostra ancora una volta il proprio interesse per quegli elementi minimi, per quegli spazi interstiziali che compongono una vicenda. Romanistan, in ogni sua sfaccettatura, è un’opera sensibile, capace di mostrare una chiave diversa di conoscenza culturale che oggi più che mai si fa necessaria. È un’opera che sa raccontare – e farsi raccontare – la lenta storia di resistenza e adattamento di un popolo.
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