Nel nostro mondo iperconnesso, in cui ci scambiamo migliaia di parole e pensieri in pochi e indifferenti attimi, che tracce lasceremo di queste comunicazioni? Probabilmente niente. E delle rotte invisibili di questi messaggi da un punto all’altro del globo, da un trasmettitore all’altro? La risposta è ancora la stessa: niente.
Cesare Brandi fu, tra le altre innumerevoli cose, un grande viaggiatore (per professione e per passione) ed è per i motivi di cui sopra che, leggendo il suo carteggio, si stenta a capire come da New York, Istanbul, Gerusalemme, Atene, Roma, Rodi, Siena, Palermo, in tempo di pace come di guerra, fosse possibile per lui e i suoi amici e colleghi parlarsi via lettera in tempo reale, in un’epoca cioè priva di connessioni digitali, trepidando in attesa per una lettera non ancora arrivata o appena ricevuta e tutto ciò dando l’impressione che i dialoghi avvenissero in diretta. Merito certamente della revisione critica della pubblicazione dedicata a questo carteggio, delle ampie note, delle notizie in merito agli interlocutori di Brandi e degli specchietti riassuntivi delle sue vicende biografiche scanditi anno per anno tra 1930 e 1988.
La raccolta delle lettere (una parte) che Vittorio Brandi Rubiu e Marilena Pasquali hanno curato è un viaggio nel tempo della cultura italiana ed europea, negli affetti e nella vita di uno dei più grandi storici dell’arte del dopoguerra, che almeno fino al 1941 aveva provato ad affermarsi come poeta e forse anche romanziere (di ciò c’è traccia solo in una lettera ad Argan), lasciando definitivamente interrotto, ma con rammarico, questo sogno nel 1942, per diventare a tempo pieno teorico del restauro (fondò e diresse l’ICR di Roma dal 1941 al 1960), critico di arte moderna (celebri le sue monografie su Burri e Morandi) ed antica (da Giotto ai Pittori riminesi del Trecento ai Quattrocentisti senesi). Ma anche scrittore di viaggi, fondatore di riviste (Le Arti, L’Immagine) e di fondamentali studi di estetica e teoria della critica (Segno e Immagine, Le due Vie, Struttura e Architettura), divulgatore televisivo di arte, conferenziere assai richiesto in tutto il mondo, docente ordinario di Storia dell’Arte prima all’Università di Palermo poi di Roma.
Il carteggio di Brandi racconta la sua storia a partire e attraverso le sue amicizie più intime, le quali scandiscono cronologia e vissuti. Difficile stabilire un prima o un dopo, ma di certo a colpire è quanto scrisse in modo “sibillino”, a suo stesso dire, allo scrittore e giornalista amico di una vita Giuseppe Raimondi il 19 marzo 1940, parlando di una nuova fase della sua esistenza, di nuove situazioni da tirar su senza ricorrere più a sotterfugi e accomodamenti.
Brandi è uno scrittore eccelso, sa entrare con grande sensibilità nei meandri dei propri sentimenti, sa parlare a cuore aperto coi sui interlocutori, tra i quali i primi e più assidui, soprattutto negli anni passati a lavorare per il Ministero dell’Educazione Nazionale durante il Fascismo, furono il grande archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli e Giulio Carlo Argan, ma anche Giorgio Morandi (di cui arrivò a possedere 14 opere), lo scrittore Mario Tobino, il musicologo Luigi Magnani (da cui la donazione Magnani-Rocca), e poi Renato Guttuso, Toti Scialoja, Roberto Longhi e quello che diventerà suo figlio adottivo e custode della memoria culturale di Brandi: Vittorio Brandi Rubiu.
Il carteggio intreccia vari fili, umanissimi, malinconici, familiari, istituzionali. Dalle lettere scritte per raccogliere risorse per amici in difficoltà (come il poeta e letterato Libero de Libero o lo scrittore Camillo Sbarbaro), a quelle sui propri intimi drammi di vita (scrive a Raimondi nel 1940: “so solo che ho ribrezzo di carte e di studi, e son rimasto come un albero secco vestito d’edera”) o sui propri cari (annoterà della madre semi-inferma: “la sua dolcezza è superstite come l’odore delle rose nelle rose secche”), a quelle in cui si ricostruisce il dietro le quinte di vicende e di “appoggi” che lo hanno portato a ricoprire importanti incarichi nella pubblica amministrazione, alle polemiche o i dissidi con Carlo Ludovico Ragghianti (che passò nel corso degli anni da nemico ad alleato), Roberto Longhi (che passò invece da alleato a nemico), le critiche verso “il folle” Francesco Arcangeli: che ci permettono anche di tracciare una cartografia delle postazioni della critica italiana a partire dal secondo dopoguerra.
Su tutte le lettere spiccano per bellezza e confessionalità quelle scritte a Raimondi e a Scialoja, con i quali Brandi sa di poter fare confessioni attraverso una scrittura lirica di grande intensità ed eleganza letteraria (scriverà all’amico pittore nel 1940: “Ora ho un vuoto inerte dentro di me, come quando si guarda una città dall’alto di una torre: che la vita non arriva fino a noi, bensì il rumore e gli uomini sono così piccoli”).
Carlo Levi, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan e Rosario Assunto
La musica poi cambia a partire dalla fine degli anni Quaranta e inizio Cinquanta, quando cioè Brandi supera quella che chiama “l’ultima soglia della gioventù”. Saranno gli anni della sua affermazione, dei suoi viaggi per il mondo chiamato a tenere conferenze sul restauro, gli anni in cui incontrerà il giovane Rubiu (nato nel 1928) all’epoca ventiduenne e che sarà oggetto di affezionate e assidue missive e poi via via gli anni dei suoi interessamenti e frequentazioni verso l’arte, la musica e gli artisti a lui coevi (Piero Sadun e Leoncillo, il compositore Roman Vlad) o appartenenti alle nuove avanguardie, tra cui Pino Pascali (“amico valido e impetuoso” scrive nel 1968 poco prima della prematura scomparsa di Pino, raccomandando a Rubiu di inviare per il funerale una corona di alloro da mettere sul feretro accanto a quelle dei genitori dell’artista e di Fabio Sargentini), Mario Ceroli, Mimmo Rotella (“buffo tipo che fringuella canti fonetici assai curiosi” osserva nel 1966). Una vita per certi versi avventurosa quella di Brandi, padre della ricostruzione e della salvaguardia del patrimonio storico artistico italiano (durante e dopo la guerra si occupò molto dei monumenti bombardati, tra cui gli affreschi di Mantegna agli Eremitani di Padova e curò il restauro della Maestà di Duccio, suo conterraneo senese), amico di grandi artisti italiani tra cui, oltre a Morandi e Guttuso, Giacomo Manzù che presentò più volte nel corso della sua vita.
Dalla sua casa di famiglia di Vignano presso Siena, diventata Fondazione dello stato italiano, a quella di Procida che dagli anni Quaranta sarà il suo rifugio, dagli uffici delle Sovrintendenze e delle Università italiane in cui lavorò ai laboratori e le aule dell’Istituto Centrale di Restauro di Roma, echeggiano ancora le parole di Brandi come le avesse scritte anche per noi di là da venire.
Marco Tonelli
“Cesare Brandi. Credi al mio pessimo e tenerissimo carattere. Lettere 1930-1981”
A cura di Vittorio Rubiu e Marilena Pasquali
Castelvecchi, 2017
35 euro