Il volume è il frutto di una bizzarra collaborazione tra l’artista Luca Vitone e l’antropologo Franco La Cecla. Bizzarra poi nemmeno tanto, se pensiamo che il lavoro di Vitone spesso attinge da altri campi disciplinari, come la musica, o la gastronomia o, appunto, l’antropologia.
La parte a cura di Vitone è in realtà la pubblicazione di un lavoro realizzato nel 1994 – ed esposto nel 2013 a Milano, occasione per cui si è stampata la quarta edizione del libro – consistente in una serie di oggetti personali, che l’artista ha avuto in dono o ereditati, abbinati alle planimetrie dei luoghi in cui quegli oggetti sono stati vissuti. In questo modo gli oggetti, che non sono artefatti o manufatti, bensì oggetti industriali prodotti in larga scala, acquistano un surplus di valore affettivo, testimoniato e rafforzato anche dalla notizia sulla loro esatta collocazione spaziale al tempo in cui sono stati (con)vissuti. La conseguenza più rilevante è un riappropriarsi da parte degli oggetti – seppure riproducibili e riprodotti – di un’aura perduta, non proprio benjaminiana, ma inerente più al mondo poetico della memoria e dei ricordi, e della rete di relazioni fisiche e affettive di cui sono stati al centro.
Altre associazioni, altre chiavi, ce le suggerisce La Cecla nel suo pamphlet in cui spiega come «la fede cieca nell’inerzia della materia», ovvero il pensiero materialista dominante nella nostra cultura occidentale, ha fatto sì che tutto il senso, il potere, il significato degli oggetti – al di fuori della loro mera utilità e funzionalità – venissero rimossi, compromettendo il nostro modo di relazionarci con il mondo circostante. Le categorie di cui si serve La Cecla appartengono ovviamente al mondo dell’antropologia. E dunque si parla di oggetti feticcio, di giocattoli (tra gli oggetti di Vitone c’è tra l’altro un camion giocattolo), di oggetti-rifiuti, di oggetto-merce, di passaggi di oggetti attraverso donazione o eredità , e così via.
I disegni e l’intervento di Vitone si integrano alla perfezione con il testo di La Cecla, ed entrambi si ritmano vicendevolmente, scambiandosi riferimenti e suggestioni in una sorta di rimpallo concettuale; tuttavia, a conti fatti, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un testo antropologico, apparentemente sprovvisto di qualsiasi interesse artistico al di fuori della parte di Vitone. “E dunque?”, immagino chiedersi, sconfortati e delusi, gli attenti lettori di Exibart. E dunque la questione ci riguarda comunque da vicino se pensiamo alla storia dell’arte di tutto il XX secolo, colonizzata sempre più dalla presenza di cose e oggetti: a cominciare ovviamente da Dada – i ready made, i rifiuti utilizzati da Kurt Schwitters – e poi Surrealismo – gli objet trouve e gli “oggetti a funzionamento simbolico”, oltre naturalmente agli oggetti collezionati da Breton stesso – new dada, pop, e poi le tracce degli happening, delle performance, fino ad arrivare alle cose utilizzate proprio per evocare storie e memorie vere o presunte tali. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, a cosa fa spesso Christian Boltanski con le cose – soprattutto vestiti – come ne utilizza il potere come attivatori emozionali, o Mike Nelson, che ricostruisce con gli oggetti ambienti altamente suggestivi e verosimili.
La cosa, l’oggetto, quindi ci interessa per quella sua capacità di evocare sentimenti e memorie, di richiamare un passato ora reale ora fittizio, di farsi simulacro delle nostre stesse proiezioni. Per questo va utilizzata con cautela, perché se da un lato può contribuire a rafforzare l’efficacia di un’opera, dall’altra può inquinarne il senso, distrarre, confondere, quando non addirittura sostituirsi all’opera stessa.
Autore: Luca Vitone, Franco La Cecla
Titolo: Non è cosa/ Non siamo mai soli
Editore: Eleuthera
Anno di pubblicazione: 2013
Pagine: 128
12 euro