26 dicembre 2014

Reading Room

 
Il radicante di Nicolas Bourriaud. Ovvero: come mettere radici senza mettere radici

di Mario Finazzi

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Cari amici appassionati di giardinaggio, vi congedo subito avvertendovi che, nonostante il titolo possa trarre in inganno, questo non è un libro per voi.
Cari amici appassionati di arte, invece, vi ricordate l’estetica relazionale, e il suo teorizzatore, Nicolas Bourriaud? Ecco, Il Radicante è la sua nuova fatica. Nuovo ovviamente assume un significato relativo nel mondo delle localizzazioni italiane, considerando che l’edizione originale in francese, come quella in inglese e quella in spagnolo, sono datate 2009, cinque anni fa, e non sono pochi nel mondo del contemporaneo.
Direttore dell’École nationale supérieure des Beaux-Arts di Parigi e, tra le altre cose, co-fondatore del Palais de Tokyo e co-direttore dello stesso tra il 1999 e il 2006, Bourriaud cerca sempre di fare il punto teorico delle proprie esperienze curatoriali. Questa volta si pone l’obiettivo di affrontare la globalizzazione dal punto di vista estetico, e trovare un modo per girare pagina in questo primo XXI secolo, lasciandosi alle spalle la morte del Modernismo, e l’elaborazione del lutto, il Postmoderno.
Bourriaud stabilisce il terminus post quem da cui iniziare il discorso nel 1989 per due motivi: uno è ovviamente la disintegrazione dell’equilibrio politico mondiale al quale eravamo abituati da decenni, ovvero la caduta del muro di Berlino; l’altro la mostra “Magiciens de la terre”, al Centre Pompidou, sottotitolata “Prima esposizione mondiale d’arte contemporanea”, ove erano esposti artisti di tutti i continenti, dall’artista concettuale americano, al sacerdote voodoo haitiano, al pittore di insegne di Kinshasa. Un multiculturalismo della prima ora, una raccolta di individualità culturali in realtà isolate e non comunicanti tra loro, che contraddistingueva la seconda stagione postmoderna.
Nicolas Bourriaud
Il modo sano di vivere questa molteplicità Bourriaud lo deduce invece dal pensiero dell’intellettuale e viaggiatore novecentesco Victor Segalen: il tema dell’altro, del diverso, nell’epoca postcoloniale non dev’essere occidente-centrico – quindi affrontato con la spocchiosa superiorità dello scienziato che studia da una condizione privilegiata, e neppure innesco per una mimesi idealizzante della diversità esotica; neanche deve essere relativismo oppure mera salvaguardia etnografica delle diversità, ma contaminazione attiva delle culture attraverso processi di traduzione – e non di sfruttamento del contesto culturale – e dunque creolizzazione (come era riuscito a fare Gauguin, prima di Segalen), come accade nel piatto caraibico migan.
Copiosi neologismi sono forgiati dall’autore proprio per aiutare a orientarsi meglio nella deriva post-post-moderna. Mi piace immaginare Bourriaud seduto su una poltrona mentre compiaciuto, tra un bicchiere di Bordeaux e un formaggio francese diversamente profumato, si fa scivolare sul palato parole come altermoderne oppure semionaute o esota
Altermodern era in realtà il titolo della quarta Tate Triennial, curata da Bourriaud nel 2009, e fu articolato in un finto manifesto, ironico perché pietra tombale su quel modernismo che per manifesti si era sempre espresso. Altermodernità indica una modernità specifica del XXI secolo, diversa dal Modernismo e dal Postmodernismo, costruita a livello planetario dalla cooperazione fra una moltitudine di semi culturali e la traduzione permanente delle singolarità; ed è l’unico modo, per Bourriaud, in cui l’artista può muoversi attraverso il mondo globalizzato, evitando sia l’utopia modernista di una cultura comune uniformante, sia la sterile Babele di singolarità culturali isolate. 
Rirkrit Tiravanija, Fear Eats the Soul
Bourriaud poi confeziona una nuova metafora botanica per indicare la condizione dell’artista nuovo, e che dà anche il titolo al libro: non radicato o radicale, non eradicato, ma radicante, cioè soggetto mobile, ma in grado di mettere radici durante il tragitto, dove passa, nomadicamente, proprio come l’edera, assimilando in sé le diverse sostanze incontrate. E qui si confronta ovviamente con quell’altra grande metafora vegetale che fu il rizoma deleuze-guattariano, inerente però una molteplicità orizzontale senza soggetto.
Anche altri aspetti della cultura contemporanea fanno la loro comparsa nel volume di Bourriaud, come l’erranza urbana, o il sovraccarico di informazioni, la precarietà, il dis-ingorgo, de-feticizzazione dell’arte.
Si citano poi numerosi casi esempio, spesso artisti già trattati altrove da Bourriaud, come Tino Sehgal, Rirkrit Tiravanija, e molti altri, anche classici come Marcel Duchamp o Marcel Broodthaers, e talora esempi musicali – ho adorato il cameo di Loveless dei My Bloody Valentine – e del resto un animo musicale l’autore lo ha sempre avuto (ricordiamo che DJ, insieme a programmatore, era una delle due figure chiave del contemporaneo nel suo Postprodction).
Al di là di alcuni difetti del libro – che di certo in alcuni punti perde di integrità e unitarietà, forse perché frutto di riflessioni meditate e raccolte in diversi tempi – Bourriaud ci porge queste e altre chiavi di lettura articolate e originali, applicabili, oltre che ai casi citati dall’autore stesso, a molte esperienze espositive degli ultimi anni, caratterizzate da una estrema eterogeneità.
Inevitabile anche, come notato da alcuni, che il discorso diventi anche politico, parlando di globalizzazione, postcapitalismo, egemonia dell’occidente, e via dicendo, ma mai perdendo di vista la vita delle forme. Bourriaud perciò invita anche alla lotta. Ma non più una lotta anacronistica «per la preservazione di un’avanguardia autocentrata sulle specificità dei propri mezzi», che può portare avanti un modernista alla Greenberg terrorizzato dal kitsch. Ma piuttosto una «lotta per l’indeterminazione del codice sorgente dell’arte, per la sua dissoluzione, affinché sia irreperibile» – un poco come Linux, libero (dico io).
Autore: Nicolas Bourriaud
Titolo: Il Radicante
Editore: Postmedia Books 
Anno di pubblicazione: 2014
Pagine: 77
21 euro

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