È uscito recentemente il catalogo ragionato di Agostino Bonalumi (Vimercate 1935-2013), curato dal figlio Fabrizio e dallo storico dell’arte Marco Meneguzzo. L’opera, composta da due tomi e contenente circa 2000 delle 2500 opere prodotte nel corso della vita dell’artista, risulta essere, spiega Meneguzzo, «importantissima internazionalmente, in quanto rappresenta il completamento di un ciclo propulsivo di riscoperta di Agostino Bonalumi, che ne permetterà il definitivo consolidamento e riconoscimento all’estero. D’altra parte negli anni ‘60 eravamo i più bravi di tutti». Il catalogo ragionato – qualsiasi catalogo ragionato – infatti nasce con l’obiettivo di essere prima di tutto uno strumento di tutela in un sistema dell’arte aleatorio, mirando alla cancellazione di possibili zone d’ombra create dal mercato.
Il progetto, edito da Skira, è partito con la presenza e supervisione dello stesso artista. Inizialmente pensato per arrivare solo fino al 2000, viene poi protratto fino al 2013 e presenta l’opera completa di Agostino Bonalumi, il quale ha lavorato fino a due giorni prima della morte.
Fabrizio Bonalumi ci tiene a precisare che le opere dal 2007 al 2013, ovvero quelle realizzate con il tondino d’acciaio dal ritmo geometrizzante e non più gestuale come quelle degli anni ‘90-2000, sono uscite direttamente dallo studio: «Non ci sono dubbi su quelle opere, sono tutte nel catalogo. Il resto è falso». Nel giro di quattro, cinque anni l’archivio Bonalumi si occuperà di recuperare le circa 500 opere rimaste fuori dal catalogo ragionato e fornire un aggiornamento che completerebbe il già grosso lavoro svolto.
Sfogliando il catalogo ci si accorge immediatamente che il primo tomo è una monografia cronologica. Ci porta a conoscere i primi passi dell’artista, nel 1959, anno in cui per il tramite di Enrico Baj (legato al Movimento Nucleare), Bonalumi conoscerà Piero Manzoni ed Enrico Castellani. I tre vivranno un sodalizio artistico e culturale che li porterà come gruppo ad esporre presso le galleria Pater, Prisma e Appia Antica; all’estero alla Galleria Kasper di Losanna. Insieme i tre immaginano la rivista Azimuth, di cui però Bonalumi non farà mai parte. Agostino viene accusato di voler rimanere troppo “pittore” e quando si domandava ai tre delle ragioni dell’esclusione di Bonalumi si ricevevano risposte vaghe. Bonalumi continuerà la sua strada da solo, esprimendosi a tal proposito nel 1997 in un’intervista con lo stesso Marco Meneguzzo in cui si dice dispiaciuto di essere stato un “isolato”, ma senza rancori e anzi dichiarando: «Ma poi penso che anche Manzoni, con la sua sostanziale, estrema timidezza, era un solitario, e anche Castellani è un solitario, e allora significa che probabilmente eravamo destinati a questa solitudine».
Il ‘59 è un anno importantissimo per Bonalumi, che passerà dalla pittura informale a una pittura “nuova”, realizzando il suo primo Rosso. Da li sarà una corsa coerente, creativamente parlando, per tutta la vita e inventerà le estroflessioni che diventeranno l’espressione della sua arte, così come per Castellani.
Gli anni 60-70 sono il periodo della maturità dell’artista, durante il quale si esprime attraverso imbottiture, rigonfiamenti, impuntature perfette, lucenti e monocrome. In questo periodo la critica e il mercato lo riconoscono, espone in tutte le gallerie italiane più importanti, vola a New York da Alfredo Bonino nel 1967 e la 35° Biennale di Venezia lo consacra con una sala ambientale interamente dedicata. Gli ambienti spaziali, a cui si dedica fino al 1970, sono alcune delle sperimentazioni meglio riuscite e più affascinanti dell’artista, sono completi sensorialmente e gli permettono di raggiungere il teatro. Collaborerà con Goffredo Petrassi e con l’Opera di Roma per il balletto Rot, con musiche elettroniche di Domenico Guaccero. Purtroppo quest’ultimi sono stati documentati solo saltuariamente, come del resto le esposizioni. Negli anni ‘70 il clima sociale insinua il dubbio nell’artista, ma le domande rispetto alla propria opera lo accompagneranno tutta la vita, prova di un’intelligenza che si interroga costantemente. Dello stesso periodo sono le sue opere chiamate “centine”, “griglie”, “tapparelle” che porterà avanti per sedici anni, attraversando momenti storici in cui la sua arte appare anacronistica, ma che riesce comunque a svilupparsi negli anni ‘80, imperterrita, dividendo la scena con la Transavanguardia italiana e i Neoselvaggi tedeschi e americani. Bonalumi resiste in una valle di mezzo in cui la sua generazione non è ancora storicizzata, sebbene venga definita “vecchia”.
Dagli anni ‘90 fino al nuovo millennio lo assorbe un nuovo ciclo di lavori e, come accennavamo, approda attraverso l’uso del filo d’acciaio a opere più libere e gestuali, che sembrano quasi disegnate a mano, ma che sono sempre e immancabilmente spinte fuori dal retro della tela per andare oltre la superficie. L’uso del filo d’acciaio prosegue fino alla morte, seppur attraverso una visione più decorativa, a volte geometrica e modulare, a volte con accenti decisamente più organici.
Nonostante siano stati molti i critici e gli storici ad occuparsi dell’opera di Agostino Bonalumi, tra cui Celant e Argan, è stato Gillo Dorfles a definirne il carattere con il termine di “pittura-oggetto”. Insieme a Bonalumi sotto questa definizione si raccolgono tutti gli artisti che hanno forzato la superficie della tela con le estroflessioni, che hanno ricercato un’intercapedine tra pittura e scultura, raggiungendo a volte persino la dimensione architettonica, proprio come nel caso di Bonalumi.
Il catalogo è anche strumento bibliografico per chi volesse approfondire i testi e le poesie scritte dall’artista e raccoglie “l’intervista delle interviste”, che esemplifica come Bonalumi, nel corso dei decenni, sia rimasto coerente rispetto alle sue convinzioni artistiche e alle proprie modalità operative.
Greta Scarpa