Il museo è, per antonomasia, lo spazio della memoria. L’etimologia rimanda alle Muse, figlie di Zeus e di Mnemosine, la dea alla cui fonte, posta all’ingresso degli inferi, chi si fosse dissetato avrebbe ricordato ciò che avrebbe visto oltre la soglia dell’Ade. Il mito suggerisce, per estensione, che l’intelligibilità e il godimento delle arti (non intrattengono forse gli artisti, per tradizione, sulfurei commerci con il mondo ctonio?) necessitano della forza fecondante del ricordo che è insieme retaggio ecumenico ed esclusivo vissuto personale. Ed è proprio questa funzione edonica della memoria ad attivare un contatto empatico con l’oggetto della fruizione, fino a sfiorare il mistero dell’appercezione estetica. Rammentiamo di passata l’ardita utopia rinascimentale vagheggiata da Giulio Camillo con il suo enciclopedico Teatro della Sapienza. Come lo spazio trasforma l’arte. Come l’arte trasforma lo spazio, il libro di Maddalena d’Alfonso (Milano, 1952- architetto e curatrice di esposizioni), di cui ci occupiamo in queste righe, può essere letto come un labirintico percorso museale scandito da tre ricorrenti e interconnessi nuclei tematici principali (la tesi di dottorato dell’autrice da cui l’opera è germinata, ne motiva la manifesta struttura schematica oltre che una misurata agilità espressiva). Uno di questi temi riguarda l’avvento – storicamente ben documentato nel libro – sulla scena museografica ed espografica della figura “rivoluzionaria” del curatore d’arte (una figura nata nei primi decenni del novecento) “sapiente organizzatore del pensiero in immagini” in grado di elaborare una peculiare poetica dello spazio attraverso i complessi strumenti dell’allestimento, dell’architettura e della messa in scena delle opere d’arte. A questo si collegano gli altri due temi-chiave individuabili, a nostro avviso: il suaccennato ruolo cruciale della memoria – nella concreta accezione di memoria dei riguardanti – intesa sia come principale e ineludibile luogo concettuale di esistenza e di condivisione delle opere (la preziosa intuizione si deve ad Harald Szeeman, curatore d’arte tra i più importanti) che come necessario organo di mediazione per l’intellezione e l’esperienza sensoriale di qualsivoglia espressione artistica. E infine, la riflessione sullo spazio avviata da Cezanne, da Kandisky e da Le Corbusier e sviluppata, nel corso del novecento avanguardistico, segnatamente da Iannis Xenakis, da Alexander Dorner, da Franco Albini e da Frederick Kiesler, per citare soltanto i nomi maggiormente ricorrenti nel saggio in esame. Una riflessione, questa, che ha condotto ad approfondire il senso e la funzione dello spazio espositivo, da intendersi non più come mero contenitore neutro e asettico in ordine al coinvolgimento estetico – se mai lo sia stato- ma piuttosto come “medium attivo tra l’opera e il fruitore” in grado, pertanto, di svolgere un ufficio di primo piano nella comunicazione artistica. Il libro di Maddalena d’Alfonso evidenzia come sia da tempo in atto una sorta di rivoluzione copernicana nel sistema museale ed espografico dagli sviluppi potenzialmente fecondi ma non ancora del tutto prevedibili.
Luigi Capano
Maddalena D’Alfonso
Come lo spazio trasforma l’arte e come l’arte trasforma lo spazio. In un libro
Silvana Editoriale 2017
Euro 18