Francesca Alfano Miglietti (FAM), teorico e critico d’arte, ha scritto un libro che ci voleva. Si intitola A perdita d’occhio”. Visibilità e invisibilità nell’arte contemporanea, ed è pubblicato da Skira. C’è in giro parecchia diffidenza (forse troppa) nei confronti dell’arte contemporanea. La gente esprime facili giudizi, apprezzamenti generici, sull’arte classica, anche se la conosce poco, o non la conosce affatto. Sull’arte contemporanea, spesso la reazione è di pregiudiziale rifiuto. Non la si capisce e ci si rifiuta di capirla. Ma per capire un’opera d’arte, sia classica che contemporanea, non è sufficiente guardarla. Bisogna sforzarsi di vedere l’invisibile, quello che a prima vista non appare, “un presagio, una memoria, un amore, un tempo, un disagio” scrive FAM nella controcopertina del libro. Insomma, bisogna interrogarla, scoprire cosa c’è dietro, senza dimenticarci che noi siamo portati a vedere solo ciò che sappiamo. E se ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso da interpretare o lontano dai nostri canoni estetici o culturali, la prima reazione, fin troppo scontata, è il rifiuto. Bisognerebbe prendere esempio dai bambini. Guardare un’opera d’arte con lo stesso stupore e la stessa innocenza, senza pregiudizi di sorta. “Occorre prima ripulirci dalla previsione, decostruirla, accecarsi per imparare a vedere”, come dice Marco Pesatori, filosofo dadaista, che ha partecipato alla presentazione del volume insieme allo stilista designer Romeo Gigli e al critico cinematografico Gianni Canova. È significativo che l’unica immagine del saggio di FAM, in copertina, sia proprio un fotogramma del film di Luis Buñuel, Un chien andalu, (1929), tratto dalla scena in cui il regista si avvicina a una donna seduta e con un rasoio affilato le taglia un occhio in due. Una delle scene più raccapriccianti della storia del cinema, difficile da sopportare. Ma non si tratta di un’esibizione di puro sadismo, come spiega Gianni Canova. In quel gesto oltraggioso c’è un senso, c’è l’idea di andare oltre, di vedere ciò che altrimenti non si avrebbe il coraggio di vedere. Dice bene FAM, quando sostiene che nei momenti di maggiore emozione (quando, ad esempio, abbracciamo e baciamo la persona che amiamo) siamo portati a chiudere gli occhi, ci isoliamo dal vedere. FAM è contraria a riprodurre fotografie delle opere di cui parla. Nel suo saggio non le ha messe, come abbiamo detto, e non le usa neanche durante le lezioni che tiene a Brera. Tutta l’arte, anche quella contemporanea, va vista dal vero, senza altri medium. Oltretutto, Francesca disdegna qualsiasi forma di spettacolarizzazione. Lo spettacolo fa vedere in modo ostentato, crea potere attraverso l’immagine, accontenta il pubblico, lo fa sentire illusoriamente partecipe. L’arte, al contrario, crea distanza tra spettatore e opera, nasconde, sceglie l’invisibilità – che è anche leggerezza – come strumento di comunicazione, è più difficile da avvicinare e richiede consapevolezza e, al contempo, perdita di coscienza. Ed è proprio il concetto di invisibilità, o meglio di un vedere “altro”, la chiave interpretativa che serve a Francesca per presentarci e interpretare, quasi come una mitologica Pizia, gli artisti ai quali si sente più vicina, cogliendo gli aspetti salienti del loro lavoro: Fabio Mauri, Tehching Hsieh, Gino De Dominicis. Jannis Kounellis, Félix Gonzàlez-Torres, Oscar Muñoz, Claudio Parmiggiani, Roman Opalka, On Kawara. Il libro è preceduto da un’analisi di Franco Berardi (Bifo) nella quale si evidenzia la conflittualità tra regimi iconofili, che prediligono le immagini, producono spettacolo e svalutano la visione autentica, e regimi iconofobi che respingono l’immagine per favorire un’azione evocativa e creativa autonoma e non denotativa. Chiudono il volume una postfazione di Filippo Timi, scrittore e attore, oltre a una utile bibliografia.
Ugo Perugini
A perdita d’occhio di Francesca Alfano Miglietti (FAM)
Editore: Skira, 2019
Pag. 96
Euro: 15,00
ISBN 978-88-572-3331-4