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16
gennaio 2019
Reading Room
Libri ed editoria
Il banale e il significativo nell’arte di oggi. Raffaele Gavarro in conversazione con Cristiano Berti
Gaggini. Le Alpi e il Tropico del Cancro è un libro firmato dall’artista Cristiano Berti. Un vero e proprio saggio, attraverso il quale – sulla base di un’imponente mole di fonti documentarie – viene ricostruita scientificamente la vicenda dello scultore e marmista Giuseppe Gaggini (1791-1867), ultimo di una discendenza di scultori rinomati. Un’opera letteraria che si situa a sua volta come opera di Berti, in cui l’autore veste i panni dello storico, in un cortocircuito tra “ruoli” e “importanze”.
Lavorando con te all’esposizione di “Cicli futili”: Gaggini al Museo di Villa Croce di Genova nel 2015, di cui questo libro è il completamento, mi sono naturalmente trovato a riflettere su cosa oggi fosse considerabile significativo e cosa banale nell’arte, in quello che vediamo tra mostre nei musei, biennali e fiere. La tua scelta di lavorare su uno scultore come Giuseppe Gaggini, e nello specifico su una sua opera che si trova a L’Avana, in definitiva considerabili, scultore e opera, marginali al corso principale della storia dell’arte, non l’ho affatto considerata una provocazione, piuttosto uno strumento per affrontare dall’interno dell’arte stessa questa questione, tutt’altro che marginale. Naturalmente le mie, le nostre, riflessioni, non possono che partire da quelle sull’argomento decisive di Arthur C. Danto, e mi riferisco in particolare a quelle contenute in La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte del 1981. Danto, praticamente per tutta la vita, si è interrogato sulla natura artistica delle Brillo Box di Warhol, su quale fosse lo statuto ontologico che le rendeva differenti, opera d’arte, rispetto all’oggetto pressoché identico che si trovava nello stesso momento nei supermercati. Mi sembra evidente come quella domanda e almeno una parte delle riflessioni di Danto siano ancora pertinenti all’arte che facciamo e che guardiamo.
«Hai ragione, la provocazione non è mai stata il mio intento principale, e in questo lavoro è del tutto assente. Provocare significa in un certo senso prevalere, e non è questo il tratto distintivo dell’esperienza di questo primo capitolo dei Cicli futili. Anzi il peso del lavoro, negli anni che sono serviti a compierlo, mi ha reso una specie di orante o penitente, intento a tormentarsi silenziosamente. Nella deliziosa ossessione della ricerca storica ho trovato specchiata l’ossessione della ricerca artistica, e ho fatto molta fatica a vincere l’incantamento della prima, devo ammetterlo. E per tornare alle tue considerazioni: che cosa è, o non è, storia?».
Al di là delle considerazioni generali sul concetto di storia, e di storia dell’arte, tu hai interpretato la ricerca storica come una forma di ricerca artistica, individuando nel tratto dell’ossessione, come appunto dici, il trait d’union tra i due ambiti. Anche se mi pare che sia l’etimo stesso di storia, dal greco ἱστορία (ricerca), ad essere qui il nesso decisivo. Ma la connessione diventa ancora più interessante se consideriamo che l’origine e il significato della parola storia proviene, com’è noto, dalla radice indoeuropea wid (vedere), da cui il latino vid- radice di vĭdēre, mentre in greco dà luogo a οἶδα (sapere), e ἴστωρ è infatti colui che sa. La radice del sapere è dunque nel vedere. Interessante non trovi? Aggiungerei per completare questo ragionamento anche il concetto di verità, della ricerca del vero, che se è essenziale come principio nella ricerca storica, ha un certo peso anche nell’arte, nel senso dell’inevitabile coincidenza tra ciò che vediamo, conosciamo, e ciò che è. La domanda che ti pongo è quindi: con la tua “ossessiva” ricerca su Gaggini hai pensato di trovare una verità? E soprattutto: in che modo questa verità ci riguarda?
«Diamo nome di verità, comunemente, a una spiegazione plausibile. Quando recepiamo le spiegazioni offerte da una ricostruzione storica, siamo maggiormente portati a crederle vere, se le troviamo basate su documenti dell’epoca in cui si svolsero i fatti. Ma la verità storica delle fonti d’epoca non è più salda della verità che attribuiamo, irriflessivamente, a una fotografia. Ci sono alcune pagine nelle lezioni sulla storia di Carr in cui viene ben chiarito l’equivoco in cui può cadere lo storico, così come il suo lettore. La fonte primaria perde la qualità di prova, appena ci chiediamo per quale scopo fu steso quel dato testo, da chi, cosa c’era nei testi che non hanno avuto la ventura di essere conservati, che avremmo in mano se attori diversi avessero potuto scrivere e tramandare notizie e opinioni, e non necessariamente sullo stesso fatto, e così via. Mi pare davvero lo stesso equivoco che portano con sé i mezzi espressivi basati sulla fotografia. Ora, scavando attorno ai due nuclei tematici di questo lavoro ho trovato documenti di vario tipo, e una possibile spiegazione ad esempio sulla vicenda delle cave di marmo in val Germanasca. È una vicenda di intrighi e di sfacciate preferenze personali. Senza le lettere di Gaggini conservate a Bologna questa spiegazione sarebbe molto più povera, certamente difforme. Il giorno che qualcuno troverà il resto di quella corrispondenza, cioè le lettere di Palagi, o i fantomatici diari di Castagnetto, la spiegazione muterà ancora. Sono questi dei fatti rilevanti? Se qualche lettore è arrivato fino a leggere questa frase, dovrebbe essere pacifico rispondere che lo sono. Ma ovviamente non sono le evenienze in sé a rilevare, importa che se ne faccia il racconto. E per chi si è preso la briga di raccontare, importa l’aver cercato. Insomma è forse banale dirlo, ma tutto sta negli atti compiuti, dall’uno e dall’altro. E non solo per le evenienze minori, i fatti trascurabili. Davvero qualcuno pensa oggi che la storia sia maestra di vita? A me pare una vuota retorica buona per pedagoghi vecchio stile. La storia è incantamento, gioco che allontana pensieri cupi, ed anche un modo secolarizzato di fare visita ai defunti».
Cristiano Berti, Gaggini. Le Alpi e il Tropico del Cancro
Sono d’accordo con te. Ma in che modo, in quali termini, allora associ la ricerca storica alla ricerca artistica? In che modo la storia può corrispondere al vedere e quindi all’arte, una tra le tante cose, immagini o rappresentazioni, che oggi guardiamo e grazie alla quale conosciamo?
«Intanto gli esiti delle due ricerche si somigliano, eccome, se prescindiamo dalla consistenza materiale. Forse perché alla loro origine c’è una scelta arbitraria, fuori dalle convenienze, quella di lavorare a un artefatto futile, qualcosa di cui nessuno sentiva il bisogno. Eppure alla costruzione di questo artefatto qualcuno ha dedicato del tempo, lì dove molti altri vedevano inutilità: un’enormità di tempo, così tanto tempo che nessuno potrebbe davvero remunerare. Un tempo fuori dalle logiche economiche. Il valore dell’artefatto è perciò, prima di tutto, simbolico. Così, dal momento stesso in cui l’artefatto fa la sua comparsa, diviene parte della realtà, qualcosa di cui qualcuno non potrà più fare a meno, fissandosi e rimanendo muto per molti, ma non per tutti. Se ne sta da parte forse per decenni, finché non finisce nelle mani di qualcuno che lo cercava, o che imbattendovisi, lo utilizzerà per costruire dell’altro. Gli esiti del lavorio storico, o del lavorio artistico, sono perciò apertura, servitù, capacità di far proliferare su di sé il pensiero e l’opera altrui. Non sono caratteri esclusivi, ma sono marcatissimi in entrambi i casi, il che rafforza la parentela. Ho trovato poi nel procedimento che è proprio di ogni ricerca storica un principio, quello della selezione, che è congeniale anche a una significativa parte dei modi di fare arte oggi. Parlo della necessità di operare delle scelte su materiali già esistenti, per elaborare un senso e uno sviluppo ulteriori. In ambito artistico penso ovviamente al quadro teorico della postproduzione di cui parlava già diversi anni fa Bourriaud. Questo, guardando prima di tutto ai processi creativi, mi pare la cosa più importante. Ma le affinità vanno anche oltre il modo di operare. Non occorre rammentare, a chi si interessi di arte contemporanea, la fioritura di lavori fondati sul paradigma dell’archivio».
Parliamo quindi di Giuseppe Gaggini, della sua cava, della sua scultura, e di come la ricerca storica su tutto ciò si è trasformata in opera. Al museo di Villa Croce avevi esposto una proiezione delle immagini panoramiche dei due luoghi, sonorizzate, che s’incrociavano, più una serie di documenti. Per realizzarlo avevi viaggiato dall’Italia a Cuba, lavorando negli archivi di Genova, Torino e de L’Avana. Tutto materiale che è poi servito per la scrittura del testo storico. Avendo seguito questo tuo lavoro più o meno dall’inizio, posso senz’altro affermare che tra l’installazione di Genova e questo tomo c’è una continuità di senso, ma anche formale ed estetica, indubitabile.
«La ricerca storica è stata fin dal principio una componente essenziale del mio lavoro. Al momento della mostra si era compiuta per la gran parte, ma il libro che ne doveva essere il naturale esito era solo un insieme di schede e appunti. Quando è venuto il momento di approntarlo, è emerso l’effetto di strabismo provocato da due storie così diverse e così tenuemente collegate: il marmo (neppure lo stesso), gli anni dal 1834 al 1836, Gaggini. Nulla in un testo che fosse di ricostruzione storica, mi è sembrato, poteva operare bellamente una sintesi come la transizione video sulla scritta lasciata dallo scultore sulla parete della cava. Ho capito ben presto, però, che potevo mutuare dalla parte visiva di questo lavoro l’alternarsi dei luoghi, e almeno in parte l’effetto di graduale avvicinamento o viceversa allontanamento dal soggetto principale. Di qui il movimento a pendolo del prologo e di sei capitoli del libro, movimento appena deviato, all’inizio, dal capitolo sulle origini della vocazione imprenditoriale di Gaggini».
Il movimento temporale e spaziale che produce il seguire gli eventi, vedere i luoghi, i materiali, l’artefatto, mi sembra sia uno stratagemma sofisticato per sottolineare e per contrastare la condizione di un “presentismo” passivo nel quale ci siamo accomodati e che sta portando ad un inevitabile immobilismo intellettuale, non meno che sociale e politico.
«Volgerò intanto sul piano personale questa tua considerazione. Ho scelto di dedicarmi a questo progetto consapevole del fatto che alle regole proprie del progetto artistico, regole che cambiano di lavoro in lavoro, idiosincratiche e forse proprio per questo così stringenti, avrei sovrapposto e mescolato le consuetudini degli studi storici, e che ciò avrebbe avuto delle conseguenze. Iniziare l’indagine storica è stato come bagnarsi in un torrente, scoprire che l’acqua già ci trascina via, e dopo la primitiva estasi smarrirsi, cercare salvezza, un qualche saldo appiglio per tirarsene fuori. Questo per dire onestamente dell’esperienza che mi sono trovato a fare. All’origine della mia scelta c’è poi il desiderio di astrarsi da flussi comunicativi incontrollabili, di interrogarsi su come essi intervengano a modificare la prassi della ricerca e della fruizione in ambito culturale. Il torrente della ricerca mi ha di fatto esiliato per un periodo abbastanza lungo. Torno al mondo dell’arte visiva, da questa esperienza, quasi come convalescente, ma non me ne rammarico, e del resto non ho ancora finito con i Cicli futili. Su un piano più generale, credo che questo lavoro intersechi in maniera imprevista, perciò forse di un qualche interesse di per sé, nel metodo intendo, dimensioni assai diverse. Getta lo sguardo così indietro nel tempo, e senza scoprirvi tare di cui si scontino ora i postumi, che in prima battuta difficilmente lo si potrebbe prendere come atto politico. E pure, interpretando un poco ciò che hai appena detto, funge in qualche modo sottile (e per me inatteso) da specchio del presente, uno specchio offuscato in cui balenino a tratti i nostri affanni contemporanei».
La copertina del libro
Devo ammettere che ho sempre fatto una certa fatica a distinguere tra ciò che è futile, inutile o banale, di contro a ciò che è grave, importante o significativo. Naturalmente tutto è relativo, o meglio conseguente, alle circostanze nelle quali si attribuisce il primo o il secondo carattere. A suo tempo mi colpì molto una riflessione di Jean Baudrillard, che si trova in un suo breve saggio del 2007, Perché non è già tutto scomparso, scritto poco prima della sua morte: «È per la stessa ragione, per essersi confusa sempre più con la banalità oggettiva, che l’arte, smettendo di essere diversa dalla vita, è divenuta superflua». Cosa intendeva il filosofo francese con banalità oggettiva? e la vita lo è? e l’arte per non esserlo deve essere diversa da quest’ultima?
«Il dilemma arte-vita mi appassionava molto, un tempo. A vent’anni pensavo all’arte come se dovessi sottopormi ad un’ordinazione religiosa che mi avrebbe fatalmente allontanato dal mondo. Residui di pensiero romantico, si potrebbe dire. È da lì, da un romanticismo di fondo, che scaturivano questi miei primi ingenui tormenti. Staccatomi dai solipsistici mezzi espressivi tradizionali, il dilemma l’ho poi trovato insussistente. Il paradosso di Baudrillard sa di antico. Se sostituissimo all’espressione “banalità oggettiva” la parola “trivialità”, otterremmo, come in un esperimento chimico, di accentuarne l’effetto polveroso. L’arte separata dalla vita: non credo che Baudrillard capisse molto di arte contemporanea, che volesse davvero capirla intendo, alla fine della sua vita. Banale è lo sguardo, non l’oggetto. Banale è qualcosa che si aggiunge all’oggetto. Questo, come dici, dipende dai casi. Che gli artisti odierni, che operano attorno ad evenienze minori, esplicitandone la percezione condivisa di banalità, risultino artisti banali, è solo una boutade, è guardare dalla parte sbagliata. Come se posti davanti a due persone in dialogo tra loro, ci ostinassimo a guardare solo chi parla, quando la chiave di tutto sta nell’osservare le reazioni dell’altra parte. Ad ogni buon conto, io sono più interessato alle stranezze e alle complessità che se ne stanno celate sotto la banalità, come i vermi sotto i sassi. La banalità diviene così, più chiaramente, una pura apparenza. Concetto ed effetto esemplificato da alcuni titoli di mie vecchie mostre, come Niente è troppo strano per essere vero e Vertigine del reale».
Io credo che se esiste, quando esiste, una sovrapposizione, o coincidenza tra arte e vita, essa si trovi nella complessità. E penso alla complessità innanzitutto nei termini nei quali ne ha parlato Edgar Morin, definendolo come un “sentimento”, un termine utilmente ambiguo soprattutto se associato a quello della complessità. Ma direi che nello specifico del nostro discorso sull’arte, e sulla vita, coincidente o meno con quella, il “sentimento della complessità” sia in grado di accogliere molti aspetti di entrambi. Tutto il tuo lavoro sulla vita e sull’opera di Gaggini, e naturalmente sulla futilità con la quale le sigli, mi pare una perfetta manifestazione di quella felice definizione di Morin.
«Fare arte è un modo per approcciare la complessità del mondo sensibile, un modo che facendo apertamente ricorso ai sensi dichiara di voler “sentire”, e di qui trae per una parte la sua catturante disposizione ad essere continuamente e diversamente interpretato. Dedicandomi a Giuseppe Gaggini ho fatalmente scoperto le tante figure di contorno alle due vicende della cava e della fontana. Le ramificazioni di altre storie, che si innestavano sulle due storie principali, hanno poi composto qualcosa di indescrivibile, per la quantità di notizie e misteri, di possibili associazioni e congetture. Chi cercasse di descrivere un prato si troverebbe in una difficoltà analoga. Addentratomi nel prato delle congetture e dei misteri, ho dovuto resistere alla tentazione di riaprire col mio passo ognuna delle tracce impresse da questi nostri lontani amici. Ho lasciato a riposare nell’ombra la storia di Bernardo Gozo, che forse da indipendentista pentito si trova a scortare la statua colossale del re tiranno da poco defunto. Altre figure e situazioni hanno esercitato sulla mia fantasia un’azione più profonda e duratura. Continuo con la mia metafora del prato. In fondo il prato non ha niente di speciale. Tutti ne abbiamo attraversati a decine, osservando con attenzione o gettando appena uno sguardo. Nondimeno continuiamo ad attraversare prati, e con un certo piacere. Senza prati saremmo più poveri. Non è dunque il coacervo di storie che ho indagato e raccontato, ad essere futile. Anche le figure meno rilevanti o di cui meno si sa, non solo Gaggini che è stato scultore di una certa fama, possono rivelarsi interessantissime. La futilità sta nel nucleo concettuale di questo mio lavoro d’artista, nel porre cioè una spiacevole premessa negativa all’interrogarsi sul senso di fare arte, storia, cultura, oggi».
Anch’io penso che in questa “spiacevole premessa negativa” si celi l’essenza concettuale di questo tuo lavoro. Ma in questo interrogarsi avverto i prodromi di un vero e proprio disagio, che riscontro nelle conseguenze: nell’inutilità alla quale è relegato il fare arte, storia, cultura nella mera fattualità del quotidiano (Heidegger). Soprattutto, e per la verità, il disagio consegue al ruolo d’intrattenimento, e quindi di perfetta innocuità alla quale è destinata la cultura in questo nostro tempo.
Come sarebbe se camminare nel prato comportasse (nuovamente) il rischio di calpestare dei cespugli spinosi e persino qualche chiodo?
Raffaele Gavarro