Il termine “re-enactment” indica la ricostruzione di un oggetto di design, di un’opera d’arte, di un evento storico ma, a differenza del remake che designa un rifacimento, è caratterizzato da una maggiore fedeltà all’originale.
Diffusasi in svariati campi di ricerca, questa pratica implica l’assunzione di un particolare rapporto con la storia, che si differenzia dalla citazione per l’aderenza all’azione originaria, ricostruita fedelmente in senso programmatico e riformulata processualmente. La performance, operazione generalmente concepita per essere agita qui ed ora e raramente riproposta, si presta funzionalmente a questa sorta di riattivazione di meccanismi di “ri-messa in scena”.
Luis Felipe Ortega è stato tra i primi artisti che si sono appropriati di esperienze ideate da altri performers: nel 1994, in collaborazione con Daniel Guzmàn, realizza un video intitolato Remake. Re-enactment ante litteram, il lavoro si incentra sulla riproposizione di opere di Body Art partendo dalla lettura di schede relative i lavori e documenti d’epoca. In questo modo, i due artisti hanno ridato vita a Self-Portrait as a Fountain di Bruce Nauman (1966), Corner Push di Terry Fox (1970) e Face Painting di Paul McCarthy (1978). Un’operazione estetica fortemente mediata dalla scrittura, in quanto riferita a testi di carattere descrittivo e letterario, che si pone la finalità di scoprire le tensioni narrative e filosofiche scaturite dall’attivazione comandata di esperienze vissute precedentemente. Allo stesso modo, nel 2005, in occasione della mostra “Seven Easy Pieces” (2005) al Solomon Guggenheim Museum di New York, Marina Abramovic ha eseguito nell’arco di sette notti, sette diverse performance di Bruce Nauman, Vito Acconci, Gina Pane e Joseph Beuys.
Uno dei capitoli più interessanti del volume “Arte guarda Arte” di Lucilla Meloni è proprio dedicato a tali singolari rivisitazioni, lette in chiave problematica all’interno dello sterminato ambito della citazione, della copia e della desacralizzazione dell’arte contemporanea. L’autrice delinea una trattazione che tende a considerare il citazionismo in termini di sguardo e prelevamento operato dall’artista su forme, contenuti o su frammenti di opera; scarti linguistici informano nuove soluzioni, sempre possibili in quanto innestate su una codificazione necessaria al riconoscimento e all’attualizzazione dell’immagine di partenza.
I processi di dislocazione e trasferimento di modelli in situazioni e luoghi estranei utilizzano iconografie della pittura o forme scultoree preesistenti, riadattandole all’interno di una diversa cornice o usandole quali pretesti da declinare o interpretare. In Ecce Homo (1970), Luigi Ontani si ritrae come il Cristo coronato di spine raffigurato nell’omonimo dipinto di Guido Reni mentre mostra, impugnandola, la riproduzione dell’originale. A questi lavori fotografici, che citano quadri sotto forma di gigantografie o miniature, si aggiungono i tableaux vivants, in cui Ontani ricrea, dal vero, una scena discendente da una raffigurazione pittorica o personaggi tratti dalla letteratura.
Il volume si chiude con un’appendice dedicata alle conseguenti riflessioni sulla figura dell’autore e sul principio di invenzione, mentre i concetti di originalità, le aporie e le utopie delle avanguardie storiche, confermano la categoria di novità come elemento imprescindibile.
Nell’analisi dei riferimenti di strutture già utilizzate, ci si allontana inevitabilmente dal tracciato segnato dall’apparizione di opere mai viste: autorialità e finzione diventano, in questo modo, funzioni evolutive in grado di fornire un continuo strumento di lettura per l’opera.
Arte guarda arte. Pratiche della citazione nell’arte contemporanea
Autore: Lucilla Meloni
Editore: Postmedia Books
Anno di pubblicazione: 2013
Pagine: 160
Euro: 16,90