Se c’è un argomento oggi esaminato, dibattuto, rilanciato di media in media, è sicuramente il metaverso, ovvero – per restare alla definizione del saggio eponimo di Matthew Ball, tradotto in italiano da Garzanti – «Un mondo a tre dimensioni, una rete di esperienze interconnesse che vanno ben al di là della realtà virtuale».
La moda, sensibile per sua stessa natura alle temperie culturali, si è subito lanciata su quello che appare the next big thing di una società sempre più digitalizzata, in un profluvio di NFT, avatar, store pixelati, iniziative estemporanee e non. Questo panorama frastagliato e in fieri è stato arricchito, nel 2022, da un progetto a dir poco avanguardistico, Red-Eye, magazine o meglio “metazine” che ha la sua ragion d’essere nella commistione, nel (fecondo) sincretismo tra fashion, arte, natura, musica e VR, indagate attraverso una pluralità di strumenti innovativi, dalle scansioni 3D alla computer graphics.
Giunto al terzo numero, dal titolo evocativo “Bloomtopia”, è una creatura di Gloria Maria Cappelletti, vulcanica giornalista e direttrice creativa la cui lunga, proficua carriera nel settore l’ha portata a collaborare con giganti del calibro di Steven Klein, Daniel Sannwald o Stéphane Sednaoui, curare il Fashion Film Festival, dirigere l’edizione italiana della mitica rivista i-D, insegnare alla NABA e, appunto, fondare una testata «Nativa per il metaverso», di cui parla approfonditamente nell’intervista seguente.
Red-Eye è un «metazine nativo per il metaverso», potresti approfondire la definizione, spiegarci cos’è, di cosa si occupa il giornale di cui sei editor-in-chief e direttrice creativa?
«La parola chiave è meta, suffisso estremamente connotato e ormai associato al metaverso, tanto che la società madre di Facebook e Instagram se n’è appropriata. Bisogna invece tornare a Platone, alla meraviglia del decifrare la dimensione digitale come nel mito della caverna, in cui le ombre, unica realtà possibile per i prigionieri della grotta, erano in verità solo delle sagome.
Lavorare sul digitale conduce a una riscoperta del reale, è questa per me l’accezione migliore del termine phygital, la compresenza di fisicità e virtuale, naturale e artificiale che, tuttavia, sono la stessa cosa, poiché credo che il mondo venga definito dal modo in cui lo viviamo e interpretiamo.
Sono nella moda dagli anni ‘90, ho vissuto l’evoluzione dello storytelling, il passaggio dall’analogico al digitale, dal racconto fotografico classico al fashion film; ora siamo davanti a una tecnologia che permette di operare in un ambiente tridimensionale compartecipato, una realtà (non solo) virtuale di cui non siamo spettatori passivi ma fruitori attivi».
Perché, oggi, i media dovrebbero interessarsi a questo mondo, quali opportunità offre il metaverso all’editoria?
«Offre l’opportunità di trovare nuovi modi di raccontare delle storie e documentare quanto avviene intorno a noi, sviscerando – poniamo – l’operato di un artista attraverso interviste, stanze con le sue installazioni, link…Il punto, fondamentalmente, è esplorare i contenuti in maniera diversa, con layer ulteriori oltre l’articolo tradizionale».
L’intelligenza artificiale è un argomento all’ordine del giorno, da Red-Eye la usate per la newsletter RADAR o progetti come la mostra “DUNE: Not for Spice”, celebrativa dell’opus di Jodorowsky. Come riuscite a rendere l’IA funzionale al lavoro editoriale?
«La trovo uno strumento potentissimo, offre la possibilità di effettuare ricerche che, ricorrendo a Google Search, sarebbero impossibili. L’idea di base è quella del dialogo, definendo un contesto specifico per l’uso dell’IA da abbinare ad altre stratificazioni, rimandi, operazioni di editing. A mio parere, stimola le persone, le rende utenti attivi. È una questione, per tornare al linguaggio filosofico, di maieutica, in cui si estrapola dall’algoritmo ciò che si vuole, sta tutto al singolo utilizzatore, che si trova di fronte a una specie di specchio».
Sostieni che la Metaverse Fashion Week di Decentraland sia stata un’idea in sostanza errata, esteticamente discutibile, sviluppata con modalità escludenti. Come immagini una settimana della moda che, al contrario, sfrutti appieno le potenzialità del “mezzo”?
«Su Decentraland sembrava di essere in un mall, era tutto fin troppo “reale”, su Red-Eye invece creiamo spazi completamente diversi gli uni dagli altri, all’insegna della customizzazione. Anche nell’approccio alle recensioni delle sfilate, abbiamo stanze ad hoc, nel caso di quella Diesel autunno/inverno 2023, ad esempio, si potevano visualizzare la diretta streaming, il backstage e altri approfondimenti, accompagnati da una grafica nei toni del rosso e blu denim caratteristico del marchio, oppure avviare talk o incontri coi designer, senza organizzare un evento distinto come la Metaverse Fashion Week».
Quale può essere il valore aggiunto del metaverso al racconto della moda, delle sue dinamiche, dei brand che la plasmano e veicolano?
«Penso possa contribuire a innescare nuovamente una curiosità; siamo arrivati alla saturazione dei contenuti, noto un affaticamento sempre maggiore nel fashion system, tutto è velocissimo, foto, post, calendari compressi, si devono gestire mille stimoli.
È importante, perciò, (ri)scoprire la meraviglia, un ingrediente essenziale per la moda, come ho detto lavoro nel settore da anni, ricordo gli show in silenzio, la calca per entrare a quelli di Alexander McQueen, come pure il tempo dilatato che permetteva di sorprendersi, ogni volta, davanti alle cover story di Steven Meisel per Vogue Italia, ognuna un universo a sé, un viaggio straordinario.
Ecco, secondo me il metaverso può aiutare a ottenere quel wow effect, io esplorandolo scopro un’infinità di cose, mi meraviglio appunto, mentre la stessa dinamica temporale dell’attesa sopracitata si stabilisce con l’IA, creando un prompt e aspettando, lasciandosi sorprendere dal risultato. Si stabilisce un dialogo in cui è contemplata una parentesi, il momento dell’attesa e la successiva rielaborazione, innescando processi inediti.
La liquidità – per così dire – degli algoritmi, inoltre, rimanda alla fluidità che contraddistingue svariate collezioni contemporanee, basti vedere l’immaginario legato agli avatar, con abiti futuristici, cangianti, dai movimenti e texture incredibili, quasi onirici; mi ricordano la visionarietà di McQueen».
Con Gloria Maria Gallery ti sei dedicata in tempi non sospetti (era il 2009) agli artisti digitali, considerati allora “giovani che perdevano tempo al computer”, per usare le tue parole. Cosa ricordi di quell’esperienza, come la valuti ex post?
«È stata un’esperienza assolutamente positiva, il progetto curatoriale verteva sull’arte digitale primitiva, perché eravamo davvero alla preistoria in questo senso. Abbiamo ospitato, tra gli altri, Petra Cortright, che ora espone in musei come MoMA o LACMA, ma all’epoca lavorava su YouTube; noi già coprivamo questi interventi con lo streaming, poi abbiamo introdotto il QR code.
Insomma, tante e interessanti sperimentazioni, mi sono state utili, come del resto avere una simile struttura da allestire; per me è fondamentale lavorare con gli artisti partendo dallo spazio e il metaverso non è altro che una sconfinata galleria.
Da Gloria Maria Gallery ci facevamo parecchie domande, soprattutto per capire come distribuire determinati contenuti, penso alle perfomance di Amalia Ulman su Instagram, rispetto alle quali nessuno sapeva come muoversi, finché la Tate ha acquisito una sua immagine postata sul social».
La discussione sul metaverso sembra ancora polarizzata, si passa dalla visione entusiastica di chi intravede una rivoluzione copernicana a detrattori e scettici che, viceversa, evidenziano i grossi problemi riscontrati finora dalla Meta di Zuckerberg. Qual è il tuo pensiero in merito, a che punto sarà il metaverso tra una decina d’anni?
«Il metaverso attuale, a mio giudizio, è solo una parte, va inquadrato nell’ottica di una compresenza di realtà aumentata, IA, virtualità e spazi “altri”; oggi è in una fase sperimentale, la trasformazione epocale, credo, avverrà con l’implementazione dell’intelligenza artificiale, una rivoluzione paragonabile al passaggio dal Tuttocittà a Google Maps.
Questo per quanto riguarda la parte utilitaristica del discorso, sul piano creativo è ancora tutto da definire, saranno gli stessi creator a occuparsene, di pari passo col progredire delle tecnologie.
Il vero rischio che vedo sta nell’uso che potrebbero fare governi e istituzioni di una tale mole di dati, però il fatto di essere da subito dentro un sistema permette di sviluppare una prospettiva critica. L’altra sfida riguarda i singoli utenti, avranno nelle proprie mani uno strumento dalla potenza inaudita e devono mantenere un senso etico nell’approcciarvisi, è importante, perciò, educare i giovani, sensibilizzarli sull’argomento».
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