Nel 1996 la rivista americana October ha sottoposto ad artisti, storici e critici d’arte contemporanea un questionario concernente la visual culture. Una disciplina figlia dei cultural studies – diffusi soprattutto nei paesi anglofoni – che all’arte preferisce il visuale; alla storia un approccio antropologico; alle immagini della storia dell’arte quelle pop consumate attraverso gli schermi tv ed ora virtualizzate.
Le spartizioni accademiche del sapere si sfaldano in favore di un terreno interdisciplinare più consono alla complessità prismatica dei fenomeni affrontati. A nessuno sfugge come nel panorama editoriale e universitario italiano vi sia una certa disattenzione, se non una vera e propria diffidenza, verso il visual turn; a qualcuno potrebbe evocare il professore di studi hitleriani descritto da Don De Lillo in Rumore bianco. In altri termini, l’accezione di cultura visuale che da noi ha più circolato è quella legata agli studi iconologici (in particolare a S. Alpers sulla scia di M. Baxandall), o al Barthes delle mitologie, al Foucault della rappresentazione e dell’articolazione fra conoscenza e potere. I più perspicaci, guardando nella giusta direzione, si spingono fino a John Berger (di cui si può ora leggere Sul guardare, Bruno Mondadori). Poi, il deserto. Va dunque salutata con entusiasmo la traduzione per i tipi della Meltemi della informata e appassionata introduzione di Nicholas Mirzoeff, già curatore, per la prestigiosa Routledge, di un’antologia sul visuale che di questo saggio è l’ossatura.
In sintesi, l’autore definisce la visual culture come una strategia, “una struttura interpretativa fluida, basata sulla comprensione della risposta di singoli individui e gruppi ai media visivi” (servirebbe un libro intero per commentare la fluidità della struttura cui si allude). Sintomatiche al riguardo due sezioni, in un libro generoso di eventi visivi dove la tecnologia media la percezione, arte contemporanea inclusa. La parte consacrata al cinema di fantascienza, innanzitutto – dall’Invasione degli ultracorpi a Independence Day, manca solo Matrix – nella sua più o meno consapevole difesa della visione americana del mondo. Uno sguardo che – legando immagini e mentalità, vita quotidiana e produzione culturale, imaginaire e microstoria, esperienza artistica e pratica sociale – non può non ricordare Kracauer (mai citato ma poco importa), dove a Caligari e Hitler sembrano sostituirsi, si parva licet, Spielberg e Bush. Secondo case-study è la sezione critico-applicativa che ripercorre il destino geo-politico del Congo, dal periodo coloniale all’indipendenza, in cui ben emergono le dinamiche che regolano la costruzione di un’identità culturale su cui da tempo insistono i cultural studies: razza e nazione da una parte e sex (appartenenza biologica) e gender (gestione sociale della sessualità) dall’altra. Un tipo di analisi che è una declinazione dell’agire politico, pur nella consapevolezza, come ricorda Mirzoeff, che si tratti ancora di un discorso dell’Occidente sull’Occidente.
Viene infine da domandarsi quando l’Italia (esterna al campo di interessi dell’autore, se non per un cenno a Gramsci, peraltro molto studiato nelle università americane) sia entrata nel mondo della cultura visuale. Quale evento ha avuto sull’immaginario un impatto simile alla morte di Lady Diana, icona pop alla stregua di una santa dell’America Latina, miscela esplosiva di globale e locale? Potremmo essere in ritardo o forse potremmo aver anticipato questa piega culturale, politica e sociale del visuale sin dagli anni Settanta – con il rapimento Moro, naturalmente.
riccardo venturi
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la tagedia 'tutta italiana' seguita in diretta tv dell'agonia del piccolo alfredino rampi.