La poesia di Gabriele Tinti si situa su quel crinale difficile e tragico in cui per Heidegger la parola poetica dialoga con il pensiero filosofico interrogando direttamente l’essere nel tempo, l’essere per la morte e quell’oltre il tempo, quella cosa in sé inaccessibile, inesperibile. “Da dove gli enti hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro). E che cos’è quest’ingiustizia se non l’ostinarsi degli enti a voler persistere, ad insistere nell’essere presenti? È proprio qui che si situa il pensiero poetico di Tinti: nel fallimento del tentativo di esistere, nel disperato, vano, tentativo di resistere all’oblio, alla morte intesa come disfacimento della materia organica nel proprio ineluttabile ritorno all’inorganico ma ancor più nel dissolvimento della memoria di sé, nella dissoluzione di quel principio di individuazione di cui ci parla Friedrich Nietzsche nella Nascita della Tragedia.
L’epigramma e gli inserimenti delle epigrafi antiche divengono quindi messaggi a futura memoria, tracce di un passaggio nel mondo che vorrebbe eternarsi attraverso la persistente durezza della pietra. Nel presente lo scacco, il fallimento di ogni tentativo di raccogliere quella voce che ci proviene dal passato: Cosa vuoi che conti il tuo nome/ laggiù? È una brama spenta/ nel pallore d’una faccia di pietra, / un mea culpa recitato alla terra. Qui il tempo non è una sequenza lineare passato – futuro attraverso il presente. Il tempo nella poesia di Tinti è un tempo ciclico: passato-presente-passato, non c’è futuro, non c’è la speranza di una prospettiva di un ἔσχατος (éskatos). Senza prospettiva il presente collassa nel passato incapace di raccoglierne il grido, il lamento, ne viene anzi risucchiato.
Ma questo fallimento è già nella voce che proviene dagli avi, in quanto essa stessa fu presente illusorio di un passato precedente. Il passato scuote i cadaveri,/ mesce i porti, dirige gli istinti./ È ingordo, brucia di fame,/ cambia la voce, insinua il dubbio. /È venuto a cercarmi, a chiudermi/ gli occhi, le viscere, il futuro./ Preme alle porte della volontà,/ disegna le impronte./ Cammina veloce, riflette/ il disastro, prepara il giaciglio.
Questa è l’origine della ferita, proprio nella volontà di persistere, di continuare disperatamente ad esistere, un lavorìo Sisifiano, tentativo infruttuoso di opporsi al dissolvimento dei confini dell’individuo. E allora meglio sprofondare, lasciarsi risucchiare nel baratro dove è possibile trovare la sorgente vera del dolore: A volte basta un colpo,/ un colpo solo per sentire/ la sorgente vera/ del dolore. La poesia è questa capacità di oltrepassamento, un attraversare le maschere di cui si alimenta la commedia, il vivere bulimicamente d’illusioni; è il guardare oltre ciò che appare, l’entrare nell’ombra, il mettersi in ascolto dell’indicibile fino al silenzio originario tenendo sempre aperta la ferita, perché abbiamo bisogno di stare lì,/ vicino alla lama,/ alla mercé del dolore, lasciando scorrere quel sangue che è vita. Ecco allora il sanguinamento come apertura, come unica possibilità di esistenza.
Questo “sanguinare” è la poesia stessa. Sanguina una poesia consapevole dei miraggi, che si spolii di qualsiasi illusione di salvezza, una poesia aperta al dolore che si lasci risucchiare dove l’oscurità non ha fondo e non ha voce. Parlami ancora – m’implori -/ ma il mio cuore brilla nell’ombra./ La mia bocca è di piombo,/ pesa nella rimessa vuota, / canta silenziosa.
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