Va innanzitutto riconosciuto un merito a questa ricognizione dell’arte novecentesca: l’essere esente da quel diffuso atteggiamento didattico che – con toni assertori a volte apodittici – tende a convincere/costringere il lettore ad allargare la sua angusta concezione dell’arte. In una dichiarazione di intenti, Denys Riout (autore fra l’altro di una paradossale storia della pittura monocroma, non ancora tradotta) si schiera dalla parte del pubblico – del suo smarrimento e delle sue perplessità – dalla parte di chi considera l’arte contemporanea come un problema irrisolto. Quest’istanza sociologica influenza l’architettura stessa del saggio che, al posto di definizioni o criteri di giudizio, offre gli strumenti indispensabili per orientarsi nel “carattere rizomatico dello sviluppo storico”. Il materiale è organizzato secondo un brillante intreccio fra esposizione tematica e esposizione cronologica, dipanandosi su più livelli interrelati, al punto che basta sfiorarne uno per far risuonare gli altri. Inoltre l’interpolazione fra testo critico e documenti, l’attenzione costante alle esposizioni internazionali che, come antenne, captano le nuove tendenze del mondo dell’arte (e segnano il destino della storia dell’arte stessa), rendono il testo vigile e polifonico.
Due le figure portanti: l’arte astratta e le arti plastiche. La prima, di cui è ripercorso lo sviluppo dagli anni dieci alla crisi degli anni Cinquanta, viene messa in relazione con la “seduzione del reale”, ovvero con l’irrompere della concretezza fisica dell’oggetto nell’opera d’arte per cui “è il materiale che detta la forma all’artista” (Tarabukin). Intento comune: abbandonare per sempre la mimesis. E’ da questo proposito che muove anche il nuovo paradigma costituito dalle arti plastiche, che a partire dai cruciali anni sessanta e attraverso il postmoderno segnano la fine dell’avanguardia. Nonostante la loro natura caotica Riout ne individua i tratti principali, procedendo a volte ‘per figure’ (un approccio duttile che potrebbe far scuola): l’utilizzo spregiudicato dei media, come la TV, dove “il tubo catodico sostituisce la tela” (N. J. Paik) e soprattutto la fotografia, motore di questa sezione; il superamento della cultura visiva verso una declinazione dell’invisibile; la smaterializzazione dell’oggetto artistico e l’uscita dall’atelier; l’innesto della scrittura nel quadro (spazio prima consacrato alle forme); l’esibizione del corpo dell’artista. Audaci mutazioni e contaminazioni che incidono di riflesso anche sulla partecipazione e sul ruolo svolto dal pubblico (“siamo noi stessi le forme”, A. Kaprow).
Attraverso queste due tracce emergono inoltre le predilezioni dell’autore: la ricorrenza di Picasso (un esempio inedito: come precursore della body art) e soprattutto di Duchamp, figura poliedrica che anticipa gran parte delle tendenze delle arti plastiche. Matisse invece, il più celebre degli assenti, si insinua anche nei percorsi più lontani dalle immagini, mostrando la difficoltà di tenere separate ricerche figurative e non. Per quanto riguarda la presenza italiana – schiacciata sul Futurismo, con qualche accenno all’arte povera – è inutile andare alla ricerca degli omissis, seppure va segnalata almeno la disattenzione per l’opera di Burri, che pure conferma l’impianto di fondo del saggio di Riout.
Infine un puntello critico sull’espunzione della tradizione figurativa, ritenuta dall’autore più accessibile e meno stupefacente per il grande pubblico nonché, più radicalmente, meno innovatrice. Sviluppare le potenzialità dell’arte conduce necessariamente all’abbandono della rappresentazione, alla trasgressione della riconoscibilità del visivo? Proprio in questi giorni si discute dell’opera di Lucian Freud, fatta di corpi disumani come pezzi di carne: una pittura ‘figurativa’ che sembra richiamare da vicino molte manifestazioni estreme delle cosiddette “arti plastiche”.
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