17 febbraio 2003

teoria dell’arte Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza (marinotti 2002)

 
Un percorso originale che attraversa i campi più disparati delle manifestazioni artistiche del Novecento. Per esplorare una dimensione del silenzio che sembra oggi caduta nell’oblio. Con qualche rischio…

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Quarto volume di un’elegante collana attenta alle intersezioni fra arte e filosofia, Silenzi eloquenti introduce al pubblico italiano la figura e l’opera di Carlos Martí Arís, architetto spagnolo i cui interessi spaziano dalle arti figurative alla musica e alla letteratura. Discipline che si incontrano, si contaminano e si arricchiscono in una riflessione trasversale sulla messa in opera del silenzio. L’esposizione è scandita in cinque percorsi: lo scrittore argentino Borges, l’architetto olandese van der Rohe, il regista giapponese Ozu, il pittore russo-americano Rothko, lo scultore spagnolo Oteiza.
Secondo l’autore solo a partire dall’esperienza diretta delle opere è possibile costruire una teoria dell’arte, che viene paragonata – con un’efficace metafora – alla funzione della centina nella costruzione dell’arco: necessaria quanto invisibile alla vista. Tuttavia nel testo sono ben operanti dei presupposti teorici forti, impliciti nei capitoli consacrati agli artisti, seppur la loro messa a fuoco si accompagni ad un certo disagio e disappunto. In cosa consiste dunque la “poetica del silenzio” rappresa nell’efficace ossimoro del titolo e ripreso da una frase di Octavio Paz per cui “anche il silenzio è un linguaggio”? Isoliamo tre caratteri: la contemplazione, l’anonimato, l’atemporalità.
Il primo, legato all’introspezione dell’artista che, romanticamente, ha il compito di svelare il mistero del mondo, di portarlo alla luce della coscienza. Il secondo come condizione spirituale in cui l’artista trascende se stesso e la propria epoca, sciogliendosi nell’assoluto. Il terzo, proprio di un’arte universale estranea al quotidiano, che vince la storia e si estromette dal tempo, grazie al principio del “less is more” (van der Rohe) che secondo l’autore guiderebbe anche l’astrazione.
Questo, in breve, il cuore teorico del testo. Nell’anelito alla forma pura, al silenzio cristallino, all’apparizione trascendente che avvicina l’artista al mistico, la ricerca dell’essenziale sembra così sconfinare in una ricerca dell’essenza e del Vero (svelato o recuperato) – insomma in un approccio dai chiari e scivolosissimi risvolti metafisici. In questa cornice non potrà allora stupire la critica apocalittica e senza appello alla pervasività della cultura mediatica, all’ipertrofia delle metropoli fragorose, e soprattutto l’avversione nei riguardi dei movimenti d’avanguardia (divenuta in seguito “stridente esibizione del deforme e del patologico”! alias arte degenerata?). L’autore parteggia Borges per un’avanguardia in minor, che non disturbi, guidata dall’autocontrollo e votata al congelamento della forma. Così articola in modo schematico e irrigidito il rapporto avanguardia/tradizione: la prima esaurisce il suo compito (ma non risiede qui il paradosso fondante dell’avanguardia: quello di essere inesauribile?) e la seconda è pronta a stemperarne la carica eversiva per contemplare in un solo sguardo la storia. Una modernità che somiglia – per usare un’immagine architettonica – al panopticon. Al contrario è necessario tener conto della complessità e delle contraddizioni delle esperienze artistiche e della loro scrittura all’interno di quella che chiamiamo storia dell’arte. La famosa centina, che non può correre il rischio di sottrarsi allo sguardo del lettore, mette in tensione tutto l’arco, rischiando di deformarlo.
Silenzio versus avanguardia, dunque? Eppure, al primo non è intrinseca una dimensione perturbante, ben rappresentata fra l’altro dagli stessi autori trattati e appena accennata per bocca di George Steiner? E’ possibile ad esempio avvicinarsi a Rothko senza tenerne conto? Ci riferiamo ad un silenzio affatto edulcorato, che da esperienza di un limite si faesperienza-limite, che alla contemplazione oppone il fondo oscuro dell’esistenza; alla luce l’orrore della notte senza forma; all’anonimato la partecipazione ad un campo di forze anonimo; all’atemporalità l’incessante mormorio della morte. Décalages che nessuno come Maurice Blanchot è riuscito ad intonare, e alla cui parole – come antidoto, come pharmakon ad un silenzio perfetto quanto disumano – ci affidiamo ancora oggi.

riccardo venturi


Carlos Martí Arís, Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza (introduzione e a cura di Simona Pierini), Christian Marinotti Edizioni (www.marinotti.com ), Milano 2002, pp. 174, figg. 43, euro 13, ISBN 88-8273-040-9

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