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Tutta la scultura di Gio’ Pomodoro, nel nuovo catalogo ragionato
Libri ed editoria
di Milene Mucci
È di recentissima uscita per Silvana Editoriale il catalogo ragionato delle sculture di Gio’ Pomodoro (Orciano di Pesaro, 1930 – Milano, 2002), la più aggiornata e completa pubblicazione sull’intera produzione plastica del maestro. Racconto di 3mila opere scultoree realizzate dall’artista nel periodo 1951-2002, e registrate dall’Archivio Gio’ Pomodoro nel corso di una minuziosa attività di ricerca e mappatura durata quasi 20 anni.
Iniziata sotto la guida di Luciano Caramel e continuata con l’attuale presidente Marco Meneguzzo, la raccolta dei dati – a cura dell’Archivio diretto da Rossella Farinotti – è strumento di informazione rivolto ad addetti ai lavori, collezionisti e appassionati. Tutta la produzione del grande maestro – esclusi i gioielli ai quali sarà dedicato un catalogo apposito – in due volumi distinti. Il primo una vera e propria monografia sull’artista, con testi inediti di Marco Meneguzzo, degli eredi Bruto Pomodoro, Emilio Mazza e Antonietta Ferraris e un secondo che costituisce, invece, il catalogo vero e proprio delle opere, con una serie di apparati scientifici e di selezionati scritti dell’artista.
Abbiamo incontrato Bruto Pomodoro, figlio unico di Gio’ e anch’esso artista, per farci raccontare in prima persona storia e genesi di questo importante lavoro.
Diciotto anni di gestazione per questo Catalogo generale. Un’impresa enorme che ha visto il tuo contributo importante nella parte monografica come in quella compilativa. Come si vive una tale avventura nelle vesti di artista, quale sei anche tu, di collaboratore ad un opera così importante ma anche di figlio che tutta questa vita di infinita produzione d’Arte ha vissuto in prima persona?
«Ricordo un episodio che da ragazzo mi colpì molto: eravamo a mangiare in un noto ristorante milanese quando un signore di una certa età entrò in sala; mio padre si alzò in piedi e iniziò a rivolgergli un applauso.
Poi, al termine del pranzo, si alzò e mi portò al suo tavolo per conoscerlo: “Bruto, questo signore è Felix Klee, il figlio del pittore che ami tanto. Se oggi puoi ammirare le opere di Paul Klee nei libri e nei musei è merito suo, che le ha conservate e tutelate…”
Rimasi molto colpito, poiché allora non mi aspettavo che l’amore filiale per un padre potesse tradursi in un compito così assoluto come quello di preservarne la memoria attraverso la stesura di libri, documentari e addirittura la creazione di un museoad personam.
Sicuramente anch’io, come Felix Klee, sono partito da una posizione privilegiata: mio padre mi ha sempre coinvolto attivamente nel proprio lavoro e l’approccio alle sue opere, e all’arte tout court, è stato sempre parte della mia crescita, sia sul piano strettamente culturale che su quello più profondamente spirituale, per cui tirare le fila di un lavoro compilativo così complesso non è stato così problematico come si può pensare. Lungo si, ma non problematico.
La frequentazione di entrambi gli studi di mio padre (quello di Milano e quello versiliese a Querceta) è sempre stata molto intensa e – complice anche una memoria visiva molto acuta – ricordo quasi tutte le opere che mio padre aveva creato da un certo periodo in poi, diciamo dalla seconda metà degli anni ’70.
In più io stesso avevo messo mano, durante il periodo universitario, alla riorganizzazione dell’archivio e spesso e volentieri aiutavo mio padre nella progettazione e nell’allestimento delle sue mostre e nella curatela dei cataloghi, forte anche di un apprendistato di due anni da Franco Maria Ricci.
Per un fenomeno osmotico per alcuni versi inconsapevole, mi sono ritrovato con un bagaglio di conoscenzautilissimo ai fini della stesura dei due volumi di questo catalogo generale.
Come artista posso solo consigliare ai miei colleghi di gettare le basi per un coinvolgimento quanto più possibile attivo dei figli, dei coniugi o comunque delle persone loro vicine sul proprio operato artistico, nelle sue più svariate sfaccettature, dalla produzione materiale al mondo del mercato, perché altrimenti la gestione postuma di lasciti culturali legati al mondo dell’arte può diventare un serio problema».
“Più della forma amiamo il vuoto”, scriveva tuo padre, “Il vento invisibile che agita la chiome degli alberi”. Può essere questo, secondo te, il tema conduttore della sua intera produzione artistica ?
«Sicuramente il tema del “vuoto”, tradotto in forma plastica attraverso la creazione delle Forme in tensione, è stato uno dei temi fondanti della poetica di mio padre, esaurita la spinta giovanile legata alle esperienze dell’informale. Ma lo spirito di ricerca che animava mio padre non poteva limitarsi a un solo stilema riconoscibile: ecco quindi seguirei Soli, “un omaggio ai segni solari che la civiltà umana ha lasciato da sempre verso le quattro direzioni astronomiche” ma anche “fabbrica senza proprietari”, opere tradotte spesso in chiave monumentale e parallelamente riproporre una nuova concezione della statuaria di piazza, determinatadal suo profondo amore per l’architettura, da lui definita “arte consorella”, che lo ha portato alla creazione dei Luoghi scolpiti, “per la sosta e l’incontro delle genti”».
Emilio Mazza, professore di filosofia allo IULM di Milano, in un suo testo ha creato un elenco affascinante, quasi poetico, delle decine e decine di tipologie dei materiali più diversi usati da tuo padre. Da quelli tradizionali della scultura fino alla sperimentazione, davvero ante litteram, del poliestere e di materie plastiche coloratissime con risultati ancora oggi sorprendenti e modernissimi.
«Ancora una volta, animato da una curiosità senza limiti che lo portava a investigare qualsiasi campo dello scibile umano, la sua propensione ad apprendere e fare sue le tecniche, anche quelle più sperimentali, lo poneva su un piano di dialogo con le maestranze artigianali che lo riconoscevano come un loro pari, poiché aveva imparato il loro stesso linguaggio di quella cultura materiale che oggi si sta esaurendo.
L’unico suo limite erano i nascenti computer: scattava una preclusione atavica che rendeva quegli strumenti incomprensibili e quindi non degni di essere investigati… col senno del poi, forse aveva ragione lui».
Gio’ Pomodoro scriveva tantissimo, hai raccontato. Lettere, appunti…C’è uno scritto in particolare fra quelli ritrovati che ti ha colpito e magari non conoscevi?
«Uno scritto no, ma sono emersi di recente, grazie alla ricerca di una docente dell’Accademia di Ravenna, Emanuela Bergonzoni, una serie di appunti delle lezioni che mio padre tenne anni prima in quella stessa sede.
Custoditi gelosamente da una ex allieva, a cui mio padre li aveva regalati, sono documenti commoventi per l’impegno e la passione messi nel trasmettere il sapere ai giovani studenti (Gio’ teneva il corso di Oreficeria d’arte): tavole su tavole fitte di appunti e disegni, ognuna delle quali potrebbe vivere come opera d’arte a se stante».
Cosa penserebbe l’intellettuale Gio’ Pomodoro di questi nostri tempi. Della assenza della “voce “, dell’impegno sociale di tanti grandi artisti sui grandi temi del mondo?
«Temo che i tempi, in venti anni o poco più, siano così radicalmente cambiati che il ritrovarsi ai giorni d’oggi lo catapulterebbe in un universo così distopico e così lontano da se che non lo riconoscerebbe più come suo, soprattutto per il totale scollamento dalla questione morale, che Gio’ metteva sempre in primo piano, e per il degrado culturale sempre più evidente e tangibile».
Quale è il lascito più grande di Gio’ Pomodoro che custodisci con cura, come figlio e come Artista?
«Il suo grande, incondizionato amore per il lavoro: “Il lavoro produce lavoro” soleva ripetermi…tradotto oggi il lavoro produce ricerca, produce cultura, produce rispetto per l’ambiente, produce conquiste sociali e benessere. In una figura lui era l’artifex, più che l’artista!».