Nonostante sembri un buffo gioco di parole alla Lewis Carroll, Dantedì è il giorno dedicato alla celebrazione di Dante Alighieri nell’anno del settecentenario della sua morte, istituito dall’ex Consiglio dei Ministri e identificato dai dantisti come il giorno in cui iniziò il viaggio del Poeta nell’oltremondo narrato nella Commedia. Per onorarlo degnamente abbiamo intervistato Agostino Arrivabene, che proprio in questi mesi si sta confrontando con la Divina Commedia e con i suoi fantasmi (e non parlo solo dei dannati e dei beati ma anche dello stuolo di artisti che lo hanno preceduto nell’impresa di commentare visivamente l’opera), supportato dalla curatrice e filologa Federica Maria Giallombardo.
L’opera, basata sulla nuova edizione critica di Enrico Malato, uscirà nel prossimo autunno, per Hapax Editore, sotto l’egida del Comitato Dante SettecenTo.
A che punto è la tua Divina Commedia?
Non posso sbilanciarmi troppo; diciamo che in questa fase posso affermare che ho sicuramente concluso le tavole illustrative stabilite per la cantica dell’Inferno e che nelle prossime settimane tornerò “a riveder le stelle”. Mi sono già ripulito dalla caligine di quel nero carbone che mi ha accompagnato per tutta la prima cantica, nelle stesure di ombre e di grigi, di quella tenebra caliginosa descritta da Dante. Ho saputo declinare quel nero estratto dal carbone trasformandolo in un azzurro cinereo stemperato e disteso morbidamente in quell’aria nebulosa che avvolge il monte del Purgatorio. Ho già potuto realizzare alcune tavole del Purgatorio e del Paradiso, ma nei prossimi mesi mi dedicherò alle due cantiche con maggiore sistematicità.
Sono passati 700 anni dalla morte di Dante. Come può essere resa attuale la sua opera oggi?
La poesia di Dante è, come tutte le grandi opere dell’umanità, un’intuizione sentimentale che si esprime in immagini, parole e suoni. L’immagine senza sentimento è vuota; il sentimento senza immagine è cieco. La Divina Commedia è un’espressione poetica completa, racchiude ogni aspetto dell’uomo: dalla sua degenerazione morale e fisica nell’Inferno; al sacrificio del pentimento nel Purgatorio; alla beatitudine perfetta nel Paradiso. Come la vita, è una vertigine di abissi e di vette; e la vita è sempre, necessariamente, contemporanea. Nella Commedia Dante ci mostra attraverso il suo peregrinare la vera natura dell’uomo, fatta di intelligenza e di libertà, con il fine ultimo di indirizzare rettamente le proprie azioni e i propri pensieri, di riconoscere il valore del bene e di orientare il proprio destino verso la virtù. Il viaggio di Dante si conclude al cospetto dell’amore di Dio, quel meccanismo perfetto che nell’ultima terzina “move il sole e le altre stelle” – ma lo stesso che ha saputo punire e ricacciare nel regno degli inferi Lucifero e gli altri angeli ribelli. Questa natura salvifica e protettrice è la stessa che ricerchiamo oggi (anche se la chiamiamo tutti in maniere differenti). Il dannato è colui che ha perso il lume dell’intelletto e ha preferito un bene relativo anziché il bene ultimo e sommo; abbiamo tanto ancora da imparare, in tal senso. Non si può comprendere la Divina Commedia senza comprendere il significato di libertà a cui Dante ci avvicina; leggendo il poema possiamo diventare testimoni di questa Verità.
Il tuo lavoro su e con Dante sta influendo sulle tue scelte tecniche e stilistiche?
Non vorrei svelare ancora troppo; mi piacerebbe conservare l’effetto sorpresa per l’osservatore/lettore che potrà ammirare le tavole una volta stampate e trovarne punti di coesione stilistica e di totale innovazione rispetto alle mie precedenti opere. Posso raccontare qualche espediente già reso pubblico. L’immagine del canto dedicato a Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla fu l’occasione di fare miei dei registri nuovi e di intraprendere un balzo visionario: la luce è il valore che va a definire i canti del Paradiso in un crescendo di verticalità abbacinante. Nel Paradiso la memoria terrena e anatomica va estinguendosi a favore di trasparenze vitree, lattee e madreperlacee; perciò mi sono avvicinato ai colori delle pietre delle opali e ho costruito la tavolozza per sottrazione di colore, virandolo nelle sfumature più infinitesime. Poi mi sono concentrato sulla nebbia translucente che avvolge gli spazi siderali e che vela i colori similmente alla tecnica divisionistica, con piccoli tratteggi delicatissimi che si accostano (e non si miscelano) come nella scomposizione nella retina dell’occhio. La simmetria e la geometricità che caratterizzano il percorso dantesco nel Paradiso mi hanno permesso di utilizzare la tecnica dello sdoppiamento rifratto delle immagini, che già in passato ho impiegato in altre mie opere e che ho adoperato anche per alcuni dettagli delle altre due cantiche.
A quale cantica senti che il tuo stile sia più naturalmente congeniale?
Personalmente sento sintonia con ognuna delle tre cantiche, perché tutte esaltano a modo loro un aspetto della mia grammatica espressiva. La stessa vertigine visionaria che traspare dal cammino letterario del poeta mi auguro possa osservarsi nella mia pittura, perché ormai sento costante l’impulso della bellezza e della potenza delle scene descritte – del resto, lo stesso Dante specifica fin dalla prima terzina che il viaggio è intrapreso con consapevolezza di pluralità: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”. Tutti noi siamo con Dante mentre percorre i regni; la sua iniziazione è la nostra; mutiamo lo sguardo sulla realtà insieme a lui. Il dinamismo “cinematografico” della Divina Commedia e l’espressionismo delle sue descrizioni ci includono, ci rendono compartecipi e protagonisti; per questo motivo ho sin dall’inizio voluto negare la rappresentazione del poeta nelle tavole, rendendolo “sovrapponibile” al lettore (forse l’unico antesignano di questa scelta iconografica fu Alberto Martini, che negò l’immagine di Dante Alighieri nella sua interpretazione grafica del poema).
In base a cosa stai scegliendo i passaggi da illustrare? Qual è il tuo rapporto con il testo?
Sin da subito io e la curatrice Federica Maria Giallombardo, che pazientemente e tenacemente mi sta accompagnando nel percorso iconografico, eravamo molto preoccupati dall’incedere veloce del tempo che ci avvicinava sempre più ai festeggiamenti del settecentenario Dantesco del 2021. Pertanto siamo stati obbligati a scegliere e sintetizzare un apparato iconografico che potenzialmente sarebbe infinito e interminabile: sicuramente, ognuna delle cantiche avrà una tavola di apertura e una di chiusura, mentre le altre tavole sono state assegnate ai canti in base a nostre scelte emozionali, per la spettacolarità delle scene e/o perché tappe fondamentali per comprendere il percorso iniziatico di Dante. Sul rapporto con il testo ho già scritto, ma aggiungo un aspetto non trascurabile, cioè il senso di sacrificio e di fatica nella realizzazione di un progetto titanico e ambizioso oltre misura, che sarebbe impossibile negare: ad esempio, la tavola dei lussuriosi è stata un’impresa monumentale concentrata in un minimo spazio, con migliaia di figure di dannati annaspanti in una bufera di caligine eseguiti in diversi mesi di lavoro. Ho cesellato i dettagli secondo i dettami dei miniatori del Quattrocento; mi sono infatti ispirato al manoscritto illustrato che più amo, la Divina Commedia del Codice Urbinate Latino 365, eseguita per la preziosa biblioteca di Federico da Montefeltro, miniata da Guglielmo Giraldi e Franco dei Russi.
Come ti stai rapportando ai modelli della Divina Commedia illustrata che ti hanno preceduto? Quanto ti stanno condizionando? Il più odiato e il più amato?
Trovo che Sandro Botticelli sia il più sopravvalutato fra gli interpreti: in lui non ho trovato carica innovativa ma piuttosto dei leitmotiv che si perpetuano per mezzo di uno stile Gotico ma che sbadigliano al Rinascimento. Ritengo affascinante la versione di Federico Zuccari, dove la purezza del disegno domina insieme con scelte espressive compositive innovative. Gustave Dorè, che oramai ha raggiunto il valore di archetipo cristallizzato nella memoria collettiva, l’abbiamo sin da subito volutamente eclissato: lo ritengo “ossessivo” e troppo “iconico” benché lo reputi un grande artista e nonostante abbia dato una tra le migliori interpretazioni della Commedia nell’Ottocento (non lo si può accusare, visto che furono gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso a divulgare massivamente le sue immagini, sdoganandole per tutti i generi, dalle enciclopedie alle edicole ai fascicoli). Ho preferito infine – e così anche la curatrice – attingere dai miniatori medievali e rinascimentali, e dai grandi cicli affrescati: ad esempio, la sublime armonia dei paradisi trasfigurati da Beato Angelico; oppure i magnifici inferni negli affreschi del Campo Santo a Pisa (gli stessi affreschi che ispirarono Michelangelo Buonarroti per il Giudizio Universale). Un artista sorprendente fu Amos Nattini, che nel panorama degli interpreti del Novecento è stato l’unico a emozionarmi davvero – più il suo Inferno e il suo Purgatorio e un po’ meno il suo Paradiso, che trovo troppo colorato e “carnale”, quindi non filologicamente aderente al testo dantesco. Mi piace sognare due illustrazioni della Divina Commedia “impossibili”, mai realizzate, a opera di Austin Osman Spare e di Duilio Cambellotti.
Ti piacerebbe confrontarti con altri testi classici? Quale opera sceglieresti di illustrare se ne avessi la possibilità?
Tempo fa mi ero cimentato ne Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde; ma la Divina Commedia è un testo che sin dall’adolescenza ho sperato di poter interpretare. È un percorso che va affrontato rispettando il punto di vista del poeta, senza mai tralasciare i suoi dettagli chiarissimi, pregni di realismo; un pittore che intraprende questo percorso deve umilmente accettare la visione del poeta e tenerla in perfetto equilibrio con quella del proprio ego, senza permettersi troppe licenze. È una palestra molto importante per crescere artisticamente e non escludo che in futuro mi metterò alla prova con altri testi universali che amo (se il tempo me lo permetterà). Amo il Paradiso Perduto di John Milton e le Metamorfosi di Ovidio; ma anche opere molto più antiche come la Teogonia di Esiodo o l’epopea di Gilgamesh.
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