È il 2019 quando Diletta Bellotti, ricercatrice e militante specializzata in diritti umani e migrazioni, presta il suo corpo auna rappresentazione grottesca delle crude realtà bracciantili italiane, per denunciare gli abusi e le atrocità perpetrate dal sistema del caporalato. Occhi fissi e assenti, slogan efficaci, avvolta nel Tricolore, Bellotti porta alla bocca pomodori traboccanti di sangue (finto) che trangugia con disgusto, la cui polpa si sparge sul suo volto e imbratta simbolicamente la bandiera. Da lì l’azione di protesta si diffonde a macchia d’olio, e da Piazza San Marco a Venezia dove è iniziata, si sposta attraverso l’Italia arrivando ora a istituirsi in forma scritta nell’omonimo libro Pomodori rosso sangue, uscito per Nottetempo lo scorso 5 luglio.
Il tutto si struttura, come racconta, a partire dalla sua esperienza nell’insediamento dell’ex pista di Borgo Mezzanone in Puglia. Qui tra soluzioni abitative precarie, spazzatura e lamiere, vivono i migranti e i braccianti agricoli sfruttati nei campi limitrofi, i cui prodotti, tirati a lucido e debitamente vestiti, finiscono sugli scaffali dei supermercati a battere i denti per i venti polari che giungono dai getti dell’aria condizionata. Chi invece è spezzatodal severo sole estivo, sono proprio quelli che la terra la lavorano e che incappano in uno stile di vita peggiore di quello della materia prima che raccolgono. È il caso, tra i tanti, di SatnamSingh, tristemente noto alla cronaca per quello che a tutti gli effetti può essere definito come un omicidio, o di Paola Clemente, morta nei campi nel 2015, simboli e realtà di una buona fetta di popolazione invisibilizzata e lasciata nella zona d’ombra dell’incuranza.
Bellotti va oltre il racconto personale fornendoci delle coordinate necessarie e con esse un vocabolario tutto da rivisitare: meglio parlare di lavoratori della terra che di braccianti, così come di invisibilizzati piuttosto che di invisibili, spiegando come utilizzare la comunicazione per avvicinare tematiche tanto urgenti a coloroche, anche per distanze geografiche, ignorano queste situazioni paragonabili allo schiavismo. Non ci sono narrazioni pietistiche ma solo oggettive, sostenute da dati e da una ricerca che si lega a una vita individuale che punta a raggiungere una collettività, perché come dice Noam Chomsky: «mi viene da rispondere che non diventiamo attivisti, semmai dimentichiamo di esserlo. Quando nasciamo, siamo tutti dotati di compassione, generosità e amore per gli altri. L’ingiustizia e la discriminazione ci danno fastidio».
Occorre quindi risvegliare e solleticare quel senso di fastidio che già dimora in noi e che pretende e chiede che si desti in tutta la comunità. In questo caso Pomodori rosso sangue ci aiuta, anche attraverso una capillare bibliografia che invoglia ad approfondire,creando una catena di saperi che forse può puntare i riflettori su quella zona d’ombra di cui si parlava, senza più distoglierli e attraverso la de–costruzione del profilo colonialista-occidentale, creare una nuova identità equa e senza confini capace di smuovere gli animi di «un paese rassegnato su tutto».
Leggere questo libro ora, in estate, con le temperature che quotidianamente fanno a gara per raggiungere il record, credo possa far penetrare nelle nostre ossa ancora di più il gelo pungente dell’ingiustizia. Se per “l’italiano medio” infatti i raggi del sole sono sinonimo di vacanze e abbronzatura, per altri diventano sbarre di una prigione che li ingabbia al lavoro forzato sotto la canicola. In ogni caso, libri come questo non hanno stagione, e per chi sentisse forte il risveglio dell’attivismo e avesse bisogno di un manuale d’istruzione, Diletta Bellotti ha scritto anche The rebeltoolkit. Guida alla tua rivoluzione.
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