In attesa che l’educazione sentimentale entri a far parte dei programmi scolastici – per rendere sistemico un insegnamento al rispetto, alla comprensione e alla non violenza –, Tomaso Montanari prefigura la medesima operazione stavolta tutta dedicata al patrimonio culturale. Uno sguardo gentile e paziente verso i segni dell’arte che ci circonda è ciò che il Rettore dell’Università per Stranieri di Siena tenta di istituzionalizzare con questo breve testo.
Se amore guarda (Einaudi, 2023) parla di occhi, di corpi, di relazioni. Indica la via per un rapporto sano con il patrimonio culturale, un rapporto in cui arte e bellezza non sono i pezzi mancanti in una collezione privata, ma il motore di un dialogo tra le moltitudini della terra, tra le diversità, tra i «senza storia». Ci ricorda che il rapporto col patrimonio è un rapporto tra corpi vivi, che vivo è ciò che muta nel tempo, che cambia significato, che parla lingue sempre nuove con sempre nuovi accenti, che «la compromissione e la mescolanza sono molto più simili alla vita, che non la mortuaria purezza degli stili incontaminati».
Ribadisce la povertà di un pensiero che scinde “noi” da “loro”, la “nostra arte” da quella altrui, poiché non esiste nulla di più squallido e svilente del tentativo di nascondere la bellezza dagli occhi di qualcuno.
Lo sappiamo da sempre, da Enea migrante e rifugiato di guerra che approda sulle coste italiche, alle sante Madonne che i cristiani hanno imparato a venerare appropriandosi di quella dolce intimità che già aveva unito i Greci alle propriestatue di culto. Ancora, viene da pensare al presente più stringente – un Gesù bambino palestinese lasciato morire sotto le bombe israeliane – mentre l’autore esalta l’universalità della Madonna Sistina di Raffaello con le parole di Vasilij Grossman: «Così dovevano essere madri e figli quando scorgevano le pareti bianche delle camere a gas di Treblinka».
Al posto di un cristallizzato e fasullo racconto di una storia«pura», che appiattisce la complessità e uccide il pensiero critico, il lettore è invitato a una «educazione al meticcio culturale», che trova negli ibridismi e nelle contaminazioni l’essenza della cultura stessa.
Che interesse c’è a conservare tutto? Se lo chiede san Paolo in un brano che Montanari riporta fedelmente: «Quello della civiltà, del perfezionamento dei mezzi della felicità e del piacere, dell’avanzamento e dei progressi dell’istruzione e della ragione, del miglioramento, infine, della specie umana».
C’è bisogno di custodia, cura, attenzione, restauro non per immobilizzare e decontestualizzare la traccia di un passato più o meno lontano, non per renderla asettica e sconnessa dal tempo storico che le appartiene, e neanche perché la sua impeccabile conservazione produca una forma sterile di compiacimento. Ce n’è bisogno, al contrario, affinché le parole che il passato ha da sussurrarci ci arrivino, trovandoci pronti ad ascoltarle e in grado di tramandarle.
Montanari scrive della capacità di riconoscere il valore di ciò che non ha nome, firma o riconoscimento, e lo fa citando Pasolini: «Io penso che questa stradina da niente, così umile, sia da difendere con lo stesso accanimento […] con cui si difende un’opera d’arte di un grande autore».
Si tratta dunque di saper abitare gli spazi, di volere e manifestare il bene, di apprezzare la forma che le cose assumono nel tempo, non maledirne la deperibilità o pretenderne la perfezione. Si tratta, infine, di prendere le misure con pazienza e lentezza, affinché questa convivenza sia pacifica, non improntata alla conquista. «Io non visito le città, lascio che entrino dentro di me, per osmosi» scrive Simone Weil, facendo di pazienza e lentezza i mezzi vincenti per gioire del mondo.
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