“Atlas of Brutalist Architecture”, pubblicato di recente dalla casa editrice Phaidon, è una vera e propria guida alle architetture brutaliste di tutto il mondo. Originariamente dato alle stampe nel 2018, è stato ripubblicato lo scorso anno in una nuova edizione, che contiene più di 850 edifici di tutto il mondo.
La precedente dizione ha vinto il The New York Times Best Art Book del 2018 ed è stata così recensita dal quotidiano statunitense: «I nuovi arrivati scopriranno l’influenza globale del brutalismo, quell’era finale dell’ambizione architettonica civica, gli adepti potranno invece usarla per preparare anni di vacanze rivestite di cemento».
Il censimento ha riguardato ben 102 Paesi e ha compreso anche strutture non più esistenti. Quelle ancora in piedi, sebbene non proprio apprezzate da molte persone per il loro impatto visivo prepotente, freddo, austero, quasi disumano, sono spesso a rischio, sia per le pessime condizioni in cui si trovano alcune di esse, che per via dei nuovi piani urbanistici di molte delle città in cui sorgono. Tuttavia, il rinnovato interesse attorno al tema sta anche dando nuova linfa ai tanti comitati nati un po’ ovunque per salvare questi grigi monumenti di un’epoca passata, di cui la guida di Phaidon è probabilmente il più ingente e particolareggiato catalogo esistente.
“Atlas of Brutalist Architecture” comprende maestri dell’architettura del ventesimo secolo, come Marcel Breuer, Lina Bo Bardi, Le Corbusier, Carlo Scarpa, Ernö Goldfinger, Frank Lloyd Wright, Louis Kahn e Paul Rudolph. Gli architetti contemporanei presenti includono invece Alvaro Siza, Coop Himmelb(l)au, David Chipperfield, Herzog & de Meuron, Jean Nouvel, SANAA, OMA, Renzo Piano, Tadao Ando e Zaha Hadid.
«Gli edifici sono messi a nudo nell’oggettività dei loro materiali, calcestruzzo, vetro, mattone, acciaio sono assemblati senza mediazioni formali, gli impianti lasciati a vista: “Il brutalismo tenta di affrontare la società di produzione in massa traendo una sorta di ‘rozza poesia’ dalle forze potenti e confuse che sono in gioco. (…) la sua essenza è etica», così descrissero l’architettura brutalista i fratelli Alison e Peter Smithson, architetti britannici considerati i pionieri del movimento. Le prime ricerche si svilupparono contestualmente e in sintonia con la pittura Informale di Jackson Pollock e con l’impulso antiartistico dell’Art Brut di Jean Dubuffet, con quelle riflessioni sulla società del Dopoguerra, tra urbanizzazione, produzione e consumi di massa.
Il Brutalismo riceve ampi consensi non solo in Europa ma in tutto il globo. Vengono infatti associate al brutalismo le esperienze pre-metaboliste giapponesi di Kiyonori Kikutake e Kenzo Tange, tese tra megastruttura ed espressionismo strutturale ingegneristico. Ancora in Israele, realizzazioni di stampo scultoreo come gli edifici istituzionali di Be’er Sheva, nuova capitale del Distretto Meridionale, o i progetti di Arieh Sharon e Zvi Hecker degli anni ‘60 e ’70.
Nei Paesi in procinto di emanciparsi da un preponderante passato coloniale, come Africa e Asia, il Brutalismo ben si sposa con le espressioni di un linguaggio architettonico pubblico o collettivo particolarmente adatto a incarnare una nuova indipendenza. Negli Stati Uniti, invece, risultano emblematiche di questo movimento le espressioni monumentali della Yale University Art Gallery di Louis I. Kahn o gli edifici di Paul Rudolph, come la Facoltà di Architettura per la stessa Università di Yale (1960-1963).
Negli Stati del blocco socialista, la qualifica architettonica brutalista è stata assegnata a maggiore o minor proposito tanto alle soluzioni di prefabbricazione per grandi volumetrie di edilizia residenziale pubblica, quanto a edifici rappresentativi del potere e dell’iniziativa statale realizzati tra i tardi anni ‘60 e gli anni ‘80: ministeri, uffici pubblici ma anche alberghi, infrastrutture, edifici produttivi. La stessa necessità di sottolineare la valenza morale prima di quella estetica nei progetti associati al brutalismo vale anche per il contesto dell’America Latina.
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