“I see me. And you and you and you” è l’albo illustrato realizzato da Adelaide Cioni per la casa editrice di testi senza parole Les Cerises. In questo abbecedario iconico sui corpi nudi, ciascun frammento è isolato e presentato a piena pagina come una lettera dell’alfabeto scritta da un bimbo curioso di imparare a leggere: pura e semplice forma, libera dal suo consueto ruolo e tutta da esplorare. I colori pallidi, rosati, scuri e olivastri delle mani, delle cosce, delle braccia e dei seni sconfinano oltre i contorni dal tratto insicuro e fragile o più svelto, spontaneo e spregiudicato.
Adelaide Cioni ci racconta i suoi disegni con parole scelte con cura, libere e autentiche. Parla di inclusività, del riconoscersi in un unico corpo collettivo, della bellezza in quanto presenza attenta dello sguardo, del coraggio di spogliarsi spogliando il segno, delle vibrazioni sonore della linea e del colore, di traduzione letterale dell’essenza, dell’imperfezione, dell’idea di infinito, di onestà.
«Io mi vedo. Vedo le mie mani, le ginocchia, la pancia e le gambe. Sono una bambina. Sono un bambino. Mi vedo come sarò un giorno, i piedi più grandi e buffi peli sulla pelle. Mi vedo e quando mi guardo, so che vedo un po’ anche te».
Raccontaci come è nato questo libro.
«Quest’opera ha una duplice origine: da una parte, la formalizzazione della mia ricerca sul corpo umano, che prosegue ormai da anni, nell’ambito della mostra I say I alla Galleria Nazionale; dall’altra, l’incontro con la casa editrice Les Cerises e con la curatrice Cecilia Canziani, con la quale avevo già collaborato. Inizialmente pensavamo a un libro sui motivi decorativi, poi invece la nostra attenzione si è focalizzata sul corpo. Un anno prima della pubblicazione abbiamo iniziato a ragionare su come presentarlo e poi in un solo mese, mentre io iniziavo a disegnare le prime tavole, tutto si è condensato nell’idea finale».
L’albo è rivolto a tuttə, ma nasce come libro per bambinə. Contiene immagini inclusive, che presentano identità dalle provenienze geografiche e dai generi diversi e si inseriscono in un percorso che dall’infanzia giunge all’età adulta. Qual è il senso di questa non distinzione e di questo percorso di crescita?
«L’idea era nata come un discorso autobiografico sul mio corpo, poi ho cominciato a spaziare tra i generi e ho incluso il corpo maschile. La riflessione sulla crescita deriva dai miei ricordi di bambina, quando sentivo una particolare curiosità nei confronti del mio corpo. Desideravo che i bambini conoscessero il valore dell’inclusività e che tutti potessero riconoscersi nelle mie immagini. Così, ho cominciato a lavorare con diversi colori e si è sviluppata l’idea di un corpo generale, collettivo, come quello di Jean-Luc Nancy, che non fa alcuna distinzione tra generi, etnie ed età anagrafiche. Ho sentito questa concezione come profondamente vera e liberatoria: è meraviglioso forzare i limiti percettivi dei preconcetti per sentirsi tutti parte di un unico corpo».
I tuoi disegni sono dettagli di corpi senza volto, è così che ci vediamo quando proviamo a guardarci senza l’aiuto di uno specchio: frammentatə. Il titolo dell’opera percorre un processo di scoperta attraverso la visione del sé e dell’altrə. Cosa significa per te “vedere” e che valore ha il frammento?
«Esistono tanti livelli di significato di questo sguardo in soggettiva e frammentario. Il “vedere” per me ha a che fare con l’attenzione, che tende a concentrarsi su alcuni particolari. Lo sguardo crea un legame con la cosa guardata e probabilmente questa unione coincide con la bellezza: essere attenti vuol dire essere completamente presenti e la bellezza risiede proprio nella presenza del guardare. Se osservato in questo modo, non esiste dettaglio che sia insignificante, che non contenga in sé tutto: sono convinta che qualsiasi cosa si guardi con attenzione sia bellissima. Un secondo livello di lettura dei frammenti corporei è legato agli ex voto. Ho sempre trovato molto significativo e poetico il gesto di offrire in dono un pezzo del proprio corpo per invocarne la salvezza, l’idea di affidare una parte di sé a qualcuno che compirà il miracolo».
Il corpo nudo è visto con lo sguardo diretto, semplice e smaliziato dei bambini, che decostruisce i pregiudizi e gli stereotipi degli adulti e si materializza in campiture di colori puri che fuoriescono dai loro contorni netti. Hai affermato che “il segno è tanto più forte quanto più siamo capaci di spogliarlo”. In cosa consiste questo rapporto tra disegno e nudità?
«Volevo presentare dei corpi umani senza esplorazioni ammiccanti, in modo del tutto naturale, semplice e aperto. Una volta Paolo Fresu, il famoso trombettista con cui ho avuto l’onore di collaborare, mi disse: “quando sono sul palco e sto suonando, io mi sto spogliando”. Gastone Novelli, mio grandissimo amore artistico, scriveva “bisogna avere il coraggio di spogliarsi e, quando si pensa di essere nudi, di spogliarsi ancora”. Quando si disegna, da bambini, si desidera di essere apprezzati e amati attraverso il disegno, per questo si imparano i virtuosismi. Invece, quando si indaga il disegno in quanto artisti, bisogna imparare come riconoscerne il valore di necessità, il carattere di vibrazione interiore che lo accomuna al suono. Il senso del mio lavoro risiede proprio in questo liberarmi dei compiacimenti, in questo continuo spogliare il segno».
L’aspetto della tattilità ha un ruolo molto importante nella tua poetica e in queste immagini si lega strettamente alla grammatica formale. Cosa sono per te la linea, il colore e la forma e in cosa risiede il carattere sensoriale di quest’opera?
«Il tatto è chiamato in causa in tutti i miei lavori realizzati con la stoffa, in questo caso invece il valore sensoriale si materializza nel colore, nella sua sostanza pastosa e tattile che si percepisce anche nelle immagini stampate. Il colore coinvolge l’osservatore in modo sensoriale, rispetto al tratto nero del disegno che costituisce uno stimolo di tipo intellettuale. Per me linea e colore sono entrambi vibrazioni: la linea è la traccia visibile dell’anima, il colore è una frequenza sensoriale, ha a che vedere con il piacere dell’essere corpo. La forma la associo al riconoscimento: la forma è quella cosa che vedo davanti a me, che mi rispecchia e mi mette in discussione in quanto anche io sono una forma. Direi che la forma è una sfida alla nostra presenza».
In passato hai parlato della memoria quale limine impercettibile tra il fisico e l’immateriale, tra il corpo e l’anima. Hai detto che ti interessa il riconoscimento, quel moto della memoria che presuppone una dimenticanza. Spiegaci cosa significa per te questo concetto.
«Per me il riconoscimento è quello stato d’animo che ti fa sentire a casa nel mondo. Lo sguardo è alla continua ricerca di questo rapporto affettivo, appagante e rassicurante con l’esterno, di questo sentire che l’altro esiste già all’interno del sé. Riconoscersi attraverso il corpo di un altro significa vedere e quindi essere quel corpo: è un riconoscersi in connessione con gli altri, in quanto parte dello stesso tutto».
In altre occasioni hai sottolineato l’importanza dei motivi puramente decorativi e del loro legame con le forme naturali in quanto soggetti che riconosciamo in modo istintivo, senza riempirli di senso. Qual è il rapporto tra le sagome corporee di “I see me…”, la decorazione e il paesaggio?
«Nel caso di questo libro, come in To be naked esposto alla Galleria Nazionale, il corpo osservato dall’esterno veicola un discorso sulla connessione tra le diverse identità. La ricerca sulla decorazione e sulla natura è ugualmente un’indagine sul corpo ma si sviluppa a partire dal suo interno. I motivi decorativi nascono dal confronto con la natura, nel tentativo di imitare i modi in cui la natura evolve e si moltiplica. Ricreare dei pattern geometrici a mano libera, accettando il fatto che la materia prevede l’accidente, significa usare il proprio corpo in quanto natura. Le dita delle mani di un corpo e le foglie di un albero sono tutte uguali ma non identiche, così come i triangolini tutti uguali dello stesso disegno a mano libera. Inoltre, sia la decorazione che la natura si confrontano continuamente con l’idea di infinito».
Prima di dedicarti totalmente all’arte hai lavorato a lungo come traduttrice. Ti sei allontanata dal senso verbale per avvicinarti a quello iconico, sei passata dal significante formale delle parole a quello delle immagini. Raccontaci questa evoluzione e in che modo si manifesta nelle tue opere.
«Ho amato molto il lavoro di traduttrice, ma nella mia vita le immagini hanno sempre avuto un’importanza particolare. Sicuramente la traduzione è un processo che continua ad agire nei miei lavori, che sono delle vere e proprie trascrizioni letterali di ciò che vedo. Sia nella traduzione sia nel disegno si realizza uno scarto tra l’originale e la realtà, da una parte, e le parole e i segni che ho scelto, dall’altra. Questo scarto è come un passaggio di stato in cui l’essenza della persona che compie questa trasformazione emerge e rimane come traccia verbale o iconica, come vibrazione. La scrittura mi ha aiutata a focalizzare le necessità e il senso del mio processo artistico. È qualcosa che ha a che fare con l’onestà: il tentativo infinito di aderire letteralmente all’essenza delle cose».
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