11 aprile 2021

Xbooks #15: La pittura argine del vuoto in “Arte a parte”, di Tullio Pericoli

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Recentemente pubblicato da Adelphi, "Arte a parte" è il nuovo saggio di Tullio Pericoli, che veste i panni dello scrittore per raccontarci di come i pittori soffrano di agorafobia

Tullio Pericoli, si sa, usa le mani non solo per disegnare e dipingere ma anche per scrivere e, libro dopo libro, concreta un pensiero sistematico che mi rammenta a tratti le indagini sulla visione e sul senso del “pensare per immagini” di Luigi Ghirri.  In “Arte a parte”, Pericoli condensa temi e problematiche nel cui solco si muove da tempo: la relazione tra parola scritta e disegno; il far parlare gli “attrezzi” usati, mano, pennelli, tela, carta, e anche mente e ispirazione; il tatto e la vista, uniti in fratellanza mentre si spartiscono matericità e astrazione; le relazioni tra visione e pensiero, tra gli occhi del volto e quelli della mente, che ci fa decifrare ciò che guardiamo. Argomenti su cui già s’intrattenne a lungo nell’intervista che mi rilasciò in “Oltre i margini”, catalogo della mostra che nel 2016 gli dedicammo nell’ambito della seconda edizione della Biennale del Disegno di Rimini. E in quella circostanza, Pericoli iniziava ragionando su una frase dello scrittore Murakami Haruki: «Non devi guardare quello che vuoi vedere, ma quello che devi vedere».

Ma come “vede”, le cose che un pittore “guarda”? Alla parola “pittura”, dice Pericoli, gli viene in mente sempre Giorgio Morandi. E quel che ne scrive è rivelatore, e avvincente, nel mentre la vocazione alla forma del pittore bolognese si appaia alla vocazione alla forma della materia di cui si serve.

Che dire di Morandi che a fine giornata riempie di colori scatole vuote di cerini, le rende piccole bare di pigmenti secchi, che poi rimacinerà e riuserà? Ha scritto Philippe Jaccottet ne “La ciotola del pellegrino” (Morandi): «Conserverò soltanto la parola “pazienza”. La luce sorda, uguale, che qui regna e che si esita a dire se mattutina o serale, una luce come interna alle cose, simile a un filo di lana che saprebbe tessere insieme ogni cosa: case, alberi, sentieri e cieli (…) Una luce ad un tempo interiore e distante che potrebbe confondersi con un’infinita pazienza».

Scrive Pericoli di Morandi: «La pittura di Morandi è soprattutto gesto. In ogni quadro sembra che Morandi ci racconti come lo ha fatto, come lo ha iniziato e da quale punto della tela la sua mano ha cominciato a muoversi. (…) Gli oggetti che dipinge non sono più gli oggetti che sono: non penseremmo mai che possano essere-o essere stati- usati come vere bottiglie o caraffe, o tazze da tè. Sono persone, persone che sembrano soffrire di agorafobia (…). Temono il vuoto della tela, preferirebbero un luogo più racchiuso e protetto (…) le superfici di quei tavoli si aprono come piazze deserte, “metafisiche”, luoghi da temere, perché al di là del loro perimetro c’è il vuoto». Allora interviene la pittura a contenere lo spazio e ad arginare il vuoto: la materia “salvifica”, che riaccoglie in sé i suoi oggetti, li contiene e li “legittima”.

Tullio Pericoli, Arte a parte, Milano, Adelphi, 2021

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