E’ un enorme neonato nudo e piangente ad accogliere lo spettatore nelle sale di Palazzo Piacentini per la mostra curata da Gloria Gradassi e Gianluca Marziani. Un corpo infantile e sovradimensionato, creato da Gaetano K. Bodanza, posto ad apertura di un percorso attraverso il significato e l’interpretazione che del corpo -da sempre fulcro dell’arte e della scultura in particolare- hanno dato sedici giovani artisti italiani.
Ne deriva una varietà di fascinazioni, di poetiche che differentemente si approcciano alla società ed alla materia, in cui lo sguardo dell’artista diventa soggetto del giudizio.
Lo sguardo può essere ironico e amaro, se non addirittura cinico in Paolo Schmidlin che attraverso il busto ,forse la più classica tra le forme del ritratto scultoreo, eseguito con una resa straordinariamente iperrealista propone corpi che della mutazione volontaria hanno fatto la loro nuova ed inquietante natura sino ad ottenere delle fisicità estremizzate. Transessuali, drag queen, vecchie signore invase dai lifting sono le protagoniste indiscusse delle sue opere.
Lo sguardo può invece essere falsamente edulcorato ed evocativo come in Silvano Tessarollo che nella sua rassicurante e colorata alcova in poliuretano ci mostra rotondità che difficilmente possono non dirsi corpo e altrettanto difficilmente possono riconoscersi come tali nel loro intricato amplesso.
Ghibaudo punta sulla più completa definizione di ciò che impacchetta nel suo Homo Pronto le cui istruzioni per l’uso rendono ogni corpo pezzo completo, fornito di ogni optional e pronto all’uso. Proprio l’uso che del corpo si fa sembra essere la più importante fonte ispirativa degli artisti presenti, come se esso non fosse concepibile al di fuori della sua funzione, del suo utilizzo nel mondo. La funzione diventa quindi via inevitabile per rappresentarne la vitalità , elemento importante che dal corpo non si allontana nemmeno quando Nicola Bolla decide di rappresentare il concetto di Vanitas attraverso due teschi fatti di zirconi che diventano un moderno memento mori da esposizione agghindato come una frivola signora bene per un elegante serata di gala.
Ricorre ,attraverso queste opere, anche la volontà di spiazzare continuamente lo spettatore, rovesciandone le aspettative, anche lessicali; ci riesce magistralmente Francesco Scialò con Twins dove gemelle non sono le torri ma due fanciulle a stelle e strisce, affiancate come i due colossi abbattuti a New York ma che hanno modo, essendo corpi, di tenersi per mano. Un’opera, questa, capace di restituire umanità e grazia ad un termine e ad un concetto –quello del legame fraterno- che il recente passato ha ammantato di orrore e abbrutimento.
Impossibile commentare tutti gli artisti presenti (espongono Giovanni Albanese,Michele Chiossi, Vittorio Corsini, Enrico Corte,David Fagioli, Andrea Nurcis, Simone Racheli, Antonio Riello, Maurizio Savini), ma ci lasciamo il tempo di soffermarci sull’opera di Adrian Tranquilli. The golden dream sembra concludere un percorso che si è aperto con un corpo appena nato e che non può non chiudersi con un corpo sepolto: nei sotterranei di Palazzo Piacentini giace un supereroe, un Batman trafitto come S. Sebastiano e inglobato in una suggestiva grotta sonora che vive di un ritmo scandito da una moltitudine di ceri accesi.
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Non ho visto la mostra ma l'assaggio, il corpo gigantesco del neonato, mi è già indigesto.
Non posso intrattenermi adesso perchè devo lavorare però mi sembra (per lo meno da quello che vedo) veramente esagerato esporre cose simili nel palazzo di Bice Piacentini. "Sora Bice" era una poetessa una pittrice un'artista a tutto tondo. Pensava e rallegrava gli animi con le sue poesie con i suoi dipinti e con i suoi ricami. La mostra allestita nel suo palazzo, che poi era la sua abitazione, mi sembra una sfacciata contraddizione con la sua anima, con la sua memoria e con il ricordo di quanti l'hanno conosciuta.
La scelta peraltro risulta in linea con i percorsi del pool culturale di San Benedetto del Tronto che non esita ad imporre ai cittadini (dislocando nelle piazze nel bel mezzo di fontane sulle isole dei marciapiedi)un'accozzaglia di "opere senzanima" (si pensi al gigantesco slogan che campeggia sul lungomare "lavorare lavorare lavorare preferisco il rumore del mare"), dove la garanzia che si tratta di opere d'arte non emana dalle stesse ma ohimé riposa solo sulla firma accreditata degli autori.
C'est tout.
Lita Camaioni