Una molteplicità congenita. E la Regione al plurale (le Marche…) elabora la propria
unica contemporaneità.
Il moto della fotografia di
Roberto Cicchinè è il cortocircuito della forma, della riconoscibilità. Il dettaglio prossimo, troppo. Così imminente che l’oggetto deflagra, diviene cifra segreta e sussurrata dalla luce di un’ora al tramonto. La percezione è per via di levare. Con urgente purezza, una soggettività inquieta, perennemente in transito, distorce, ascolta il sussurro della natura, ricorda, carica di significati enigmatici. Poi grovigli, linee; sottraendo, alleggerendo le forme organiche. Resta l’essenzialità intima e allusiva, come in un haiku. Resta il bianco e nero di una luce rarefatta, che scontorna e astrae.
La prossimità e l’immobilità lucida, acuminata, la concretezza della pittura sono la resistenza di
Daniele Duranti. Contro l’inganno delle immagini televisive e cinematografiche in fulmineo transito, che sofisticano la realtà; selezionate, impongono una visione tirannica, ordiscono un inganno. La realtà è finzione. L’uomo-macchina fagocita una verità deformata da tubo catodico. Come dentro un film in cui il reale è in dissolvenza, inconsistente, ambiguo, simulacro di se stesso. Dentro il cervello sotto ipnosi catatonica, una realtà manipolata, l’estraneità, la provvisorietà dei pixel, la velocità come assuefazione al non-pensiero. Da dentro, l’artista sovverte, con un’immagine sospesa e seriale, con l’effettività del colore e della pittura, con il pensiero.
La struttura di
Nardiescopetta è metafora poetica del vuoto, della leggerezza che pur occupa lo spazio, della sospensione, dell’assenza di funzionalità, di un equilibrio precario e fragile, mutevole. Oltre la suggestione del ready made, oltre l’idea del costruire e del progettare, che azzera la riconoscibilità delle menti creatrici in un annullamento algidamente emozionale, oltre l’oggettualità scultorea, c’è la presenza di una forma minimale senza sostanza, di cui resta la dimensione poetica, estetica. Resta l’essenza ermetica e allusiva.
La normalità dopo una rutilante carriera da testimonial è l’aspirazione disperata nelle vicende da soap opera congegnate con ironia corrosiva da
Rita Soccio, che ha come protagonisti Stella, la casalinga un po’ retrò del marchio Star, e Mastrolindo. Nelle puntate precedenti: dismessi i prodotti cui erano legati, fuggiti insieme anarchicamente su altri prodotti, finalmente i nostri eroi trovano una dimensione. L’esistenza nella vita reale, una casa.
Nella loro produzione della normalità desiderano ardentemente il ritratto di famiglia in posa borghese, una sessualità da calendario un po’ esibita in cui il peccato è la mela Apple, segni d’amore sul corpo nei tatuaggi con l’effigie dell’amato. Di nuovo loghi, marchi. Anche la normalità e la vita sono un prodotto. La dannazione è a un’esistenza da pubblicità?