Abbagliante, palpitante.
La percezione da miraggio
quotidiano di una pittura stesa analiticamente, pazientemente, minuziosamente,
per gradazioni e mezzi toni paralleli e disgiunti, fusi solo dall’illusione
dell’occhio che osserva, che coglie dettagli come indizi.
Giuseppe Restano (Grottaglie,
Taranto, 1970; vive a Firenze) sembra misurare uno spazio metafisico per
verticalità e linearità sovrapposte, per forme pure, per sintesi essenziali,
per parzialità e prelievi, per spigoli e prospettive, per ombre proiettate in
un mezzogiorno adriatico, per lucori riverberanti, con moto fotografico
inquietante, di sottrazione. Quasi ad astrarre, per lasciare una rinnovata
percezione.
Oggetti usuali dell’immaginario da spiaggia, di un
paesaggio marino che sa appartenere a ognuno, sono presi per scorcio, come
incastonati su sfondi neutri, disorientanti, trasfiguranti, immobili. È una
sovra-realtà doppia, filtrata, accecante che occupa lo spazio della galleria di
un riverbero quasi freddo, che scaturisce dagli oggetti stessi, in una dimensione
senza atmosfera, clinicamente allucinata.
“
L’allucinante somiglianza del reale a se stesso”, come ben afferma il filosofo
Baudrillard, si delinea, nei lavori di Restano, in un linguaggio prossimo a una
“
visione pop per l’iconografia quotidiana e al contempo a una figurazione
iperrealista di nicchia”, come scrive Francesca Baboni nel testo di presentazione della
mostra.
Le immagini, prese come per caso passeggiando curiosamente
sulla spiaggia, rendono macroscopici i dettagli, trasfigurano lo scorcio in un
esercizio percettivo, in una possibilità di apparizione, in un processo
indefesso di costruzione attraverso il fare pittorico di una realtà altra,
sospesa, di bande cromatiche stese con perizia magnetica, quasi come tirando
una linea. Il gioco percettivo di decomposizione e composizione, con dialettica
vagamente optical e scherno quasi decorativo, devia ironicamente l’equivoco
della banalità su un altro piano.
Lo spostamento è infinitesimale, minimo, eppure
straniante, destabilizzante. La
passeggiata adriatica diviene un percorso iperbolico di
plastica candida, tra presenze artificiali eppur vive, di geometrie dello
spazio minimali, di bidimensionalità tridimensionali, di linee parallele e
intersecanti di metallo fulgente, di consistenze da miraggio, di cieli vuoti e
immoti, oggetti vibranti ed evocanti una presenza assente, un movimento di
prossimità e lontananza, a fuoco e fuori fuoco.
È come abitare pittoricamente gli interstizi tra le cose. Dentro
un tempo fremente, tremulo, minimo, eppure lucente come un bisturi.