Negli interstizi della realtà. Poi oltre, per sottrazione. Progressiva e inesorabile. Territori da apocalissi ed entità che affiorano dall’ombra di un tempo remotamente prossimo. Il sincretismo dei linguaggi che diviene fotografia e performance nel lavoro di
Marco Bernacchia, presentato da Elvira Vannini, ha un moto di espansione. Sposta tempo, spazio e cose. Poi se ne appropria attraverso il suono, il prelievo dalla natura e la contaminazione ibrida. Il dislocamento è minimo eppur perturbante. Sovverte. Invade, altera, rinviene, fa corto circuito, inventa nuove connessioni, lavora con il caso ma mai casualmente.
Il divenire strumento dell’oggetto allude misteriosamente, e con un moto estetico, al linguaggio, alle etimologie che sono l’archeologia delle parole.
Instrumentum è ciò ch’è costruito, disposto. Gli innesti, le relazioni mediate dal suono raccontano nuove possibilità. L’oggetto è un Minotauro che porta i segni del rinvenimento, del dislocamento, la memoria dell’essere stato e la possibilità di essere. Porta l’impronta quasi archeologica del processo, di un divenire, di una nuova funzionalità sinestetica e di una trasformazione.
C’è una connivenza che chiude un cerchio nella performance in cui l’uomo dall’identità neutralizzata brandisce il suono come un’arma per abitare lo spazio; si fa guerriero di un esercito di difesa, in cui la natura si riappropria di se stessa; è luogo abitato da prospettive di confronto e scontro nella fotografia. L’uomo sa traghettare l’oggetto nel luogo della possibilità, di una
renovatio che comprende, in un moto inclusivo e dialettico, la natura e l’anima delle cose.
Da infinite lontananze pare affiorare come presenza ectoplasmatica e ieratica l’essere post-umano del lavoro pittorico di
Francesca Gentili, presentata da Maurizio Coccia. Con pelle vitrea e cangiante di camaleonte, la fissità sacra ed enigmatica di chi scruta altrove e oltre, degli dei, di chi è fuori dal tempo. Con un oblio arcano, la visionarietà degli angeli o dei demoni, con un remoto ricordo della loro sessualità. In una sospensione originaria.
La spazialità è asettica come in una camera di dissezione, la durata si lacera come la pelle di una crisalide, è evanescente come la pittura, eppure presente nelle grandi dimensioni dei lavori. Il corpo è concepito per sottrazione. Nello sguardo inafferrabile, ipnotico, c’ è un’ipotesi, la manifestazione di una sacralità dell’umano di fronte a se stesso e alle sue fragilità. Sembra fatto per la contemplazione, per l’ostensione. Come un’icona, un fossile antico e immobile. Dal futuro. Come un presagio, il racconto di un’appartenenza diafana, di caleidoscopiche prove d’esistenza.
La percezione diventa quasi liquida nel lavoro a stampa su fogli di acetato: ognuno è un particolare del volto, che si ricostituisce e si perde come fluttuando nel vuoto per sovrapposizione di particolari. L’evanescenza diviene unica permanenza possibile. Intensamente.