La natura: perturbante, dislocata, abitata, ferita. Diventa presenza inquietante, costrizione, imprevisto, contesa ancestrale e connivenza misteriosa, contatto intimo, caos incontrollabile, spirito vivente e respiro della terra. È un tempio, una foresta di simboli di baudelairiana memoria. Una corrispondenza arcana.
Ogni forma espressiva di
Sabrina Muzi (San Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno, 1964; vive a Bologna), presentata da Claudio Libero Pisano, sembra lo svolgersi sommesso di un dialogo. Officia un rito di appartenenza, un dissolversi in un pan-psichismo reciproco, un ritorno perturbante, incompleto: il video, l’installazione, la fotografia in bianco e nero e a colori, il disegno a matita su carta di piccole dimensioni. Come una Dafne incompleta e mutante, che fa da medium contaminato, l’artista rivela una disgiunzione ricomposta, una contiguità incompiuta, di ferite curate e aperte, di trapianti. In una dialettica di separazione e unione, di estraneità e prossimità, di disgiunzione e appartenenza.
Il video
Remote body, proiettato in loop, ha il moto di una ciclicità ritmica, una ripetizione rituale dalla lentezza simbolica e dai tempi dilatati dei vegetali, un innesto misterioso di protesi naturali. Il corpo muta in un minotauro vegetale, sacro. L’artista rappresenta una deriva, un disagio, il movimento di un corpo diffuso e remoto, una estensione arborea a infestare i nodi, i rami, le irregolarità, la corteccia, la secchezza, le strutture del caso.
Che diventano simbolo arcano e presenza significante nell’installazione. Segno, artificio totemico. Come in una gabbia, come chi sa la propria costrizione e il proprio limite organico, chi è legato all’incompiutezza claustrofobica, alla finitezza. Chi misura il mondo per geometrie, per organismi e trapianti, per spazi circoscritti eppur aperti. Come ordendo una strategia di resistenza, una rigenerazione possibile.
Le immagini a colori, in stretta relazione con il video, sembrano fissare un percorso di senso. La fragilità della cicatrice che ricorda la ferita, il dolore dello squarcio, della separazione; la cura, l’attenzione. Poi luoghi senza luogo, prossimità parziali. Le fotografie in bianco e nero, di cieli oscuri e trascorrenti, atmosfere trasversali, prese in ore arcane, di passaggio, in cui la luce è in tralice, sinistra, sono fortemente contrastate. La verticalità labirintica ed espansa dell’albero diventa archetipo di potenza incontrollabile, di invasione ed espansione, di crescita in un tempo continuo, di moti sotterranei e arcani e permanenza spiritica e aerea.
Nei piccoli disegni a tratti minuti, pulviscolari di matita, la forma deflagra in profili, sminuzzata. Il discorso si fa sussurrato, intimo, esile come una linea, un ricordo evanescente nella memoria, di luoghi immaginati. L’inquietudine profonda, silente, attonita di chi ha il sentimento della natura, il tremito sublime e spaventoso della creatura finita di fronte all’infinità.