Non sono salve le apparenze se dietro la soglia della quotidianità c’è un’eventualità inconsueta, se certi luoghi metropolitani sanno raccontare un legame oscuro con l’uomo, se la memoria diventa un minuscolo racconto mormorato dalla casualità creante. La schizofrenia organica della fotografia, la molteplice declinazione delle possibilità espressive che consente sono indagate nel lavoro degli artisti di
Dittici. Narrazioni fotografiche.
Il moto del portare alla luce, del mostrare; il testimoniare su un’ombra la sembianza che è presenza; creare una realtà irregolare e parlante in un’immagine duale, attraversando un processo tra il caso e l’intenzione, l’allusione e l’equivoco. Il tempo fermato si fa voce narrante. La dualità fotografica è una vista di secondo grado, come un’intromissione. Come spiando curiosamente dietro la soglia e l’intimità privata,
Fabio Mantovani (Bologna, 1970) rivela una metamorfosi stravagante, un lato notturno della normalità, una sessualità remota, beffardamente ambigua.
La posa fissa del treppiede coglie con ironia un ruolo in cui si entra e si esce con un travestimento, una maschera grottesca. L’occhio luminoso da teatro, da spettacolo, espone inaspettatamente la presenza dell’alter ego misterioso, di chi si ha il coraggio di essere solo nottetempo, in una seconda vita. Le cose divengono indizi di irregolarità, consueti ma disorientanti. Le identità si sovrappongono, si contrastano, ammiccano; la doppiezza sconcertante è esperire una resistenza dell’individualità.
Key Nagayoshi (Tokyo, 1968) parla sottovoce alla memoria con piccole storie, quasi incantate, in bianco e nero. L’artista giapponese racconta la meraviglia di un’intima connessione di senso delle immagini doppie trovate sulla striscia della pellicola. Il tempo vissuto è un luogo, un’impronta, una casualità inattesa e leggera, una possibilità di presenza, un darsi tempo per guardare, una mitologia ermetica delle piccole cose quotidiane.
Il formato minimo racconta la concentrazione, la volontà da miniatura di fascinare enigmaticamente, la vertigine di uno stupore inatteso, di un’evocazione imprevista. La serialità di
Essere tra le foto è abbandono estetico al sussurro di un racconto di cose lontane.
Il gesto di accostare in modo suggestivo immagini che si negano, si confermano, si compiono di
Marco Scozzaro (Torino, 1979) frammenta la percezione di un ovunque da periferia postmoderna, da cantiere, che diventa perturbante e moltiplica le potenzialità intuitive e associative. Il legame tra le immagini è quasi un lavoro di editing, una scelta di magnetismo, un incontro anomalo, un gioco di parzialità, scorci, somiglianze o contrasti.
Il ritratto si fa scenario umano, sfida, dialettica con gli oggetti. Particolari umani e metropolitani da incompiutezza cronica e consapevole, che significano l’unica percezione possibile: frantumata, prossima, come in tralice, trasversale e attraverso.