In bilico fra la sosta e l’azione. All’interno degli scavi archeologici in piazza del Popolo, ad Ascoli Piceno, si respira un’atmosfera sospesa. Nonostante la totale immobilità, si percepisce la grandezza del passato. I resti della civiltà romana sono resi accessibili mediante un sistema di passerelle, che consente di vederli dall’alto e passarvi attraverso.
In questo luogo suggestivo sono esposti i lavori di
Massimiliano Orlandoni. Appesi alla parete o appoggiati direttamente sul pavimento antico, all’interno degli scavi, sono presenti oltre cinquanta tra lavori più datati e opere recenti. La mostra nasce come progetto da sviluppare in relazione al contesto espositivo. L’interesse di Orlandoni, infatti, è orientato verso il frammento, inteso come traccia di una memoria. Il passato, per l’artista, non è distante e muto, ma va costantemente interrogato. Nell’accostarsi a ciò che è rimasto, è possibile prendere coscienza del presente. L’esistenza, in questo modo, è percepita come una stratificazione di elementi.
La mostra, organizzata dalla Galleria Villa Picena, rientra nell’ambito di un’azione di promozione dell’arte sul territorio che ha quale obiettivo primario la conoscenza degli artisti provenienti da quelle stesse zone. Per tale ragione, l’attenzione è rivolta in modo specifico ad artisti marchigiani, con un occhio di riguardo verso i più giovani. Avvalendosi di spazi pubblici e privati la galleria, che inaugurerà la propria sede a giugno, intende sviluppare la propria attività attraverso collaborazioni sia in Italia che all’estero.
I lavori esposti da Orlandoni possono essere divisi in due serie. Una parte composta da lavori precedenti, come i
notes, l’altra da site specific, pezzi studiati appositamente per il luogo che li accoglie. Il fatto che tra i due percorsi si sviluppi un discorso coerente, d’evoluzione, non è purtroppo di sostegno agli ultimi lavori, dove viene a mancare quell’equilibrio dinamico che l’artista esprime nei primi lavori. Tra le opere e il contesto avviene una sorta di fusione cromatica che non riesce a emozionare. È come se, osservando le opere recenti, si rimanesse in attesa di un punto d’attenzione che non arriva mai.
Nato come fotografo, al fianco di
Mario Giacomelli, dal 2000 l’artista sperimenta il polimaterico. Alla fotografia lentamente, in maniera progressiva, affianca la pittura. Un’unione tra due mezzi che diventa, nelle sue opere, confronto problematico. Se, infatti, la superficie liscia della carta baritata sulla quale è emulsionata la fotografia si accosta alla materia, costituita dal colore, dalla polvere di marmo, dall’alluminio, il fine ultimo è il medesimo.
In questo processo, l’artista cerca di occultare la parte oscura, il nero. Un’operazione che lo porta a compiere una sorta di procedimento alchemico, dove l’uso del bianco può essere inteso come ricerca della luce, di un percorso spirituale.