Forme arrotondate, accoglienti, sinuose, quasi sensuali nella loro ingenuità distratta, che con difficoltà confondono il primo sguardo, imprigionato nel contrasto. Il bianco nelle opere di
Eva Seufert (Francoforte, 1966; vive a Berlino) riecheggia, lontano dal rappresentare un vuoto che annulla o da riempire. Questo bianco si amalgama, crea, dà nuova sostanza a una varietà cromatica vivace, viva, impaziente.
La semplicità dei materiali, l’apparente ripetitività e pulizia delle forme non sono altro che gli strumenti attraverso i quali l’artista tedesca scatena una sensorialità partecipata, un’irriverenza controllata, significativa reinterpretazione della bidimensionalità che si sottrae alle limitazioni geometriche. Si ha quasi l’impressione che il pigmento possa staccarsi in qualsiasi momento dalla tela o dalla carta, per assumere dignità propria; il dipinto sembra una scultura che si libera del bianco, si allontana, consapevole che da esso è generata.
I colori diventano quasi una costruzione tridimensionale amalgamata allo spazio della galleria. Un incontro casuale con forme e linee che si compenetrano, per generare allegri e inquietanti personaggi dell’inconscio, resi vivi e intrappolati in un’atmosfera elettrica o, meglio, elettro-pop, artificiosa e tecnica al punto giusto, ma anche ingenuamente giocosa e allegra. L
e tinte fluo delle tempere su carta ricordano in maniera volutamente provocatoria le creazioni dell’infanzia, in un regolare susseguirsi di moduli più o meno lineari.
Forti e a tratti persino pedissequi i rimandi ai maestri della contemporaneità: impossibile ad esempio ignorare l’imprevedibilità dei movimenti di
Calder nell’intelaiatura di filo metallico in cui, ancora una volta, l’ondeggiare d’indefinibili oggetti dalle forme geometriche irregolari e dai colori vivaci s’inserisce nello sfondo neutro e campeggia al centro del percorso visivo. Prepotente si afferma l’idea del movimento, della dinamicità che non può essere imprigionata in un’atmosfera di disordine, nonostante si mostri lontana da un’idea di ordinamento delle dimensioni. Il tratto sembra convergere sempre in un’inaspettata verticalità, che supera persino la tendenza tondeggiante degli accostamenti.
È infine il secondo sguardo, quello investigativo, che ritrova nel rapporto tra spazio, colore e forma tracce dell’esperienza personale dell’artista e degli studi compiuti sulla psiche umana, attraverso terapie che con l’arte e nell’arte cercano la via per squarciare il velo di Maja e porsi come strumento d’interpretazione ed espressione delle complessità che ruotano intorno all’esistenza.
In tal senso, l’esperienza di Eva Seufert è una ricerca introspettiva trasposta nel sociale, impegnata a dar forma alla contraddizione, alla casualità inglobata nell’intersezione tra le linee.