Sembra di abitare in un minimo paese delle meraviglie e delle memorie sospese, dentro lontananze nostalgiche e perturbanti. Gli oggetti hanno la consistenza ectoplasmatica di un segnale. Sono indizi sparsi da un meticoloso criminale, annunci del suo minuscolo reato.
Romanticamente. Si sta come sul limitare della realtà.
L’immaginario infantile e fiabesco delle installazioni di
Valeria Lamonea (Torino, 1977) è un’arma carica. Nel paese di Oz ogni cosa pare proibita, interdetta misteriosamente da una voliera aerea dall’architettura fiabesca e verticale, della consistenza di una ragnatela. Non sa ingabbiare uccelli incantati, ma oggetti simbolici e perturbanti: un uovo che riflette in tralice scompone e frammenta, metallico e misterioso, le mille trasversalità della luce. È sospeso come un’ipotesi di gravità, una minaccia su un nido di filo spinato; lucido, argenteo, asetticamente insidioso. Seducente come una tentazione, crudele come la negazione. Dolcemente perfido.
La trasparenza di vetro di una campana diventa lo schermo del proibito. L’oggetto interdetto è manipolato, artefatto. Disturbata la relazione con le cose attraverso un impercettibile cortocircuito, un microscopico sabotaggio.
Si declina la privazione, la sottrazione. Nel lavoro su polistirolo resta la sagoma di una nostalgia di gesti ripetuti, ossessivi sulle cose, come di bambini che si fanno raccontare per infinite sere la stessa, terribile favola.
Elisa Laraia (Potenza, 1973) congegna un video per voyeur di un rituale domestico. Presenze femminili dai lunghi capelli come veli, dis-individuate, mettono in scena una cura di lentezza e una connivenza di segni, di ombre lunghe in uno spazio dalla consistenza diafana, di oggetti addomesticati. Bisbigliato come una rivelazione eppur meccanico, allarmante il ritmo delle immagini offre la lentezza, i gesti in controluce di un piccolo teatro delle ombre. Sembra di spiare un delitto in una casa di bambole. Di conoscere un segreto intimo e insostenibile, mormorato quando la luce si allunga, complice, sulle cose.
Il lavoro fotografico, di grande formato, sembra ripetere moduli in maniera meccanica, sembra voler invano afferrare ombre sfuggenti. L’immagine pare costruita per frammentazioni, per moduli multipli. Il lavoro su plexiglas sagomato smembra la percezione e l’identità. Parola e immagine sono corollario reciproco. Arcanamente.
Il lavoro fotografico di
Paola Risoli (Milano, 1969) è un moto a miniaturizzare metodicamente il mondo interiore, la memoria, il ricordo. Le piccole cose messe in scena come indici dentro una valigia che includa e racconti meraviglie; poi filtrate, alterate attraverso l’occhio meccanico, microscopico, prossimo della macchina fotografica, che pretende dispoticamente minuzia; poi l’equivoco dimensionale svelato come un premio.
Gli oggetti divengono lampi rossi di luce che sussurrano sottrazioni, segnali evocanti una presenza assente ma permanente, indizi lievi ed enigmatici di un delitto senza vittime.