Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) ha tracciato un segno indelebile nella storia dell’arte del Novecento, secolo che ha attraversato con esperienze intense e contraddittorie. Nella sua insopprimibile ricerca di nuovi sbocchi per l’arte, ha saputo guardare con attenzione al fermento culturale coevo, ma anche compiere incursioni a ritroso fino alle radici della nostra civiltà. Approdato infine alla metafisica, di cui viene ritenuto padre incontrastato, ha nondimeno mescolato, con disinvolta e compiaciuta esaltazione, enigma e verità, sogno e quotidianità, in una dimensione artistica che ha tratto la propria linfa vitale ora da un’intima macerazione nostalgica, ora da una senso di indefinita risolutezza identitaria.
Passando in rassegna la ricca messe di opere raccolte nelle Marche dai curatori, il visitatore avrà modo di cogliere l’originalità di questa mostra, tesa ad analizzare l’intero percorso dell’artista in un ventaglio di linguaggi espressivi che si dispiega dal segno al disegno, dalla grafica alla scultura. L’itinerario espositivo comprende, tra le numerose opere, ben 69 grafiche colorate a mano, tra cui campeggiano tavole realizzate in un formato inconsueto, 70×100, c
he riproducono i temi della metafisica del paesaggio, delle nature morte, della mitologia classica e delle battaglie dei gladiatori.
Il passaggio dal disegno alla tridimensionalità è sottolineato invece da una rarissima documentazione di novanta opere, presentate in sequenza tematica nell’intento di evidenziare le modalità dei tempi di lavoro di de Chirico, dal disegno su carta di riporto alle lastre di stampa, alle tecniche della litografia, dalle incisioni in acquatinta a quelle a cera molle. È questo un prezioso corollario alla mostra, capace di completarne la struttura e arricchirne l’intento didattico.
Tra le opere più importanti merita una menzione su tutte
Le Muse inquietanti, un dipinto estremamente metafisico realizzato nel 1917 a Parigi. In esso, le figure statuarie di antiche vestali vegliano, come manichini installati sopra un palcoscenico a forma di tolda, su un panorama urbano ibridamente contrassegnato dalla presenza di due ciminiere industriali e dalla sagoma turrita di un castello. Opera tra le più riconoscibili, insieme a quella monumentale de
Gli archeologi. Attraverso di esse, l’artista sembra abbia voluto tramandare a imperitura memoria il suo enigmatico pensiero solitario e la sua dignità schiva e altera, al cospetto di un mondo irriverente e crudele a cui, di fatto, non ha mai sentito di appartenere.