La corrispondenza o l’estraneità di sé a se stessi. La maschera e il volto. La pluralità che ci abita e c’infesta, la schizofrenia dell’uomo contemporaneo disperso, diffuso, in transito, ignoto, oscuro, nascosto e irriconoscibile a sé medesimo. Lo spazio neutro e asettico della galleria di Pescara pare segnato da presenze rivelatrici. In mostra vi sono solo lavori fotografici come metafora dell’impronta lasciata, della consistenza ectoplasmatica, della frantumazione dell’identità di ognuno. Come persistenze e indizi perturbanti.
Chiedono adorazione certe inquietanti icone profane di
Andrea Buccella. Ieratiche, assolute, teatrali, imperturbabili e antiche come dei caduti, come spiriti oscuri e padroni. Sembrano celebrare un rituale catartico, da sottosuolo, con danze da vestali, ombre trasversali e luminosità inquiete dalla densità caravaggesca. Persona e personaggio, fissità e trascorrenza, negazioni e anestesie dell’individualità. In certi lavori il volto è coperto, velato, abrogato: nessuno e centomila, con il ricordo di certi annientamenti dechirichiani e magrittiani. La realtà, gli oggetti sono segnali, simulacri, allarmi di uno smarrimento dell’individualità. Vuoti come fantocci.
Anna Sonia Del Ciotto contamina colore e bianco e nero, volto e natura come in un intarsio prezioso, come in misteriosi affioramenti di esseri elfici, come invasioni vegetali. Il trascorrere e la caducità sembra appartenere a ogni cosa; lo sguardo è fisso, diretto. Il moto è a nascondere, confondere, perdersi. L’espressione è di chi è dimentico di sé, alla ricerca di un’armonia perduta, di un legame e di un ritorno alla natura e ai suoi cicli.
Sono come polittici verticali, manifesti dell’alienazione metropolitana contemporanea, i lavori di
Simona Muzzeddu. Manichini, fantocci neutralizzati dal volto indistinto, dallo sguardo opaco, riflettono la loro inanimata fissità addosso a chi osserva, come morti
alter ego di plastica.
Similis simile: ci somigliano troppo, pericolosamente. La realtà, alterata, vacua, effimera, si dà per indistinti frantumi urbani, riverberi, velocità e rifrazioni. Si sta come su una soglia arcana, tra percepito e percetto. L’identità sessuale è narcotizzata e castrata in glaciali, livide e metalliche contiguità.
Roger Nicotera lavora infine per progetti. Li dipana come un discorso, ne indaga le implicazioni, ne compone il linguaggio. Dissolve, in una dimensione lattiginosa e opaca, nebulosa e soffocante, la consistenza di ciascuno. Il corpo è nudo, inerme, con immersioni ed emersioni estetizzanti di volti e occhi, seni e bocche. Come un moto ipnotico, di resistenza e abbandono all’evanescenza, di profondità e superficie, in un oblio di sé. Una deriva liquida che resta l’unica strategia di presenza all’insostenibile leggerezza dell’essere.