Esistono luoghi in cui pare “
naturale vivere da straniero”. Sembrano inafferrabili, diventano interrogativo, durata, spazio mentale di rovesciamento, segnali di una ossimorica dialettica di spaesamento, alterità e permanenza.
Attraverso percorsi diagonali, sovversivi, immaginabili, deformanti, con punti di vista inconsueti, i multiformi linguaggi dell’arte contemporanea paiono marcare il borgo storico di Castelbasso con un farsi spazio possibile, eretico, imprevisto, grazie a video, installazioni, fotografie.
Divengono tracce per geografie e geometrie plurali, identità mobili, visioni in cui la ricerca diviene presenza, luoghi indefiniti in cui è concepibile lo sviluppo di “
radici mobili e temporanee”, come scrive la curatrice Francesca Referza nel testo in catalogo.
I lavori dei ventuno artisti invitati dalla stessa Referza e da Francesco Poli sembrano escogitare un
genius loci molteplice che si svela poco a poco, percorrendo i luoghi e inventandone le misure. Come una costellazione, tracciando e poi cancellando percorsi. Intorno, dentro, ovunque: per le vie, in spazi abbandonati, nei palazzi storici.
L’installazione sonora di
Silvia Giambrone è una chirurgia sulla parola, sul linguaggio, sulla memoria, sul senso e il significato, sulla presenza evocata dal suono. La parola pronunciata da voci femminili di età diverse è sintesi emblematica di una relazione complessa, di ruoli, sangue, esistenza: quella primaria con la madre che si declina nella complessità e nell’indeterminatezza delle sfumature, dei toni, delle deformazioni della parola. Diventa magica, ossessivamente: presente e assente, memoria e perdita.
Daniel Glaser & Magdalena Kunz escogitano una relazione perturbante attraverso una scultura cinematografica, come la definisce Poli. Un bambino è a terra fra casse con la scritta “Kind fragile”. L’espressione del suo volto cambia: è una proiezione. Intorno voci, nell’ombra. Sussurranno, come oltre la porta, in diverse lingue. Sembra una natività contemporanea, inquietante e mutevole.
Loredana Longo preleva brandelli di ambienti in decomposizione, adorni delle piccole cose di pessimo gusto che dicono la memoria, il conflitto, i minuscoli e terribili segreti di un microcosmo borghese claustrofobico di pareti, dettagli, frammenti della percezione e della vita. Li seziona in installazione. Il delitto è premeditato: le pareti vengono perforate, quasi rese permeabili da fori di pallottole, dal suono dell’esplosione. Si sta inquieti, come a presagire. Dietro un muro a spiare un delitto.
Marzia Migliora lavora sulla perdita dell’equilibrio, dell’integrità, eppure ne cerca un nuovo centro nella fissità mobile della sua fotografia. È come stare perennemente in tralice, di traverso, fuori fuoco e fuori centro, in caduta come lucifero, il corpo trascorrente, senza luogo.
Presenze ectoplasmatiche, oggetti che divengono segnali nei lavori di
Gianni Caravaggio e
Loris Cecchini. L’altrove è il luogo mobile in cui abita il nomade, chi è sempre in transito per genetica necessità.