Una grande scacchiera stesa sul pavimento: è il campo
d’azione delle surreali sculture in gomma di
Niba, raffiguranti conigli in tute
sadomaso, adagiati su colonne che fungono da piedistalli. Il coniglio, classico
simbolo della lussuria in Occidente, si fa veicolo di tenerezze e ambiguità,
fondendo innocenza e peccato nello spazio magico di un quadrato del Sator.
Sulla parete opposta, due grandi fotografie colgono
un’improbabile donna, con il volto pubblicitario della signora Star (la Stella
del famoso dado), intenta in azioni quotidiane e intime. Dalla cucina alla
camera da letto,
Rita Soccio rielabora il reale innestandolo con l’irrealtà degli
spot, drammatizzando con ironia la vuota felicità della pubblicità.
Nel concatenarsi delle stanze di Palazzo Parissi, ogni
ambiente condensa in sé più linguaggi, stili e poetiche, dando un’esauriente
idea delle scelte culturali perseguite dalla Galleria Marconi e puntualmente
evidenziate dal curatore Dario Ciferri, al quale si deve anche il testo
critico.
Scelte indirizzate soprattutto al mezzo fotografico, come
nei dittici di
Marco Scozzaro che, affiancando luoghi di periferie urbane a corpi,
realizza un montaggio di richiami mentali sottili e al contempo aggressivi.
Sono spazi vuoti, freddi o in disfacimento, giustapposti a nudi e volti segnati
da ferite che dalla pelle passano all’animo. La carnalità e fisicità del corpo
sono sostituite dall’immaterialità degli esseri asessuati ed eterei di
Francesca
Gentili, realizzati
da stampe in sequenza su policarbonato; due apparizioni tridimensionali
composte di luce, che si fronteggiano nell’intangibilità dei propri corpi
geneticamente alieni, biologicamente alternativi.
Muovendosi per contrasto, ci s’imbatte nel disfacimento
organico delle composizioni floreali di
Rita Vitali Rosati: mazzi di fiori che, nella
propria presenza corrotta, comunicano l’inesorabile fine di ciò che viene
reciso. Scatti che richiamano le nature morte barocche, tanto da essere
facilmente confusi con opere pittoriche, e che narrano il lento deperimento
della condizione vivente. Il tutto reso con una meticolosa costruzione
compositiva.
La natura torna nelle opere di
Marco Bernacchia come innesto destabilizzante, in
ramificazioni arboree, escrescenze ecologiche fuoriuscite da un
elettrodomestico quale l’aspirapolvere. Una tecnologia postuma e diversa,
capace di riallacciare un legame con l’ambiente naturale, sviluppando inattese
e misteriose funzioni.
In fondo a una lunga rampa di scale si apre l’ultimo
ambiente espositivo, una stretta e claustrofobica stanza, luogo ideale per i
dipinti di
maicol & mirco, sui quali campeggiano, isolati nel bianco della tela, i
contorni spessi e neri di esseri grotteschi e lacerati, dai quali il sangue
fuoriesce copioso e su cui il dolore non è espressione retorica ma segno
minimale. Un contrasto asciutto, giocato su uno humor nero e feroce.