Ogni artista ha la propria ossessione. Quella di Gino Sabatini Odoardi (Pescara, 1968) è un bicchiere. Non uno qualsiasi. Ma quel preciso bicchiere. Quello d’osteria. Semplice, trasparente, antico, carico di tutta la sua potenza evocativa. L’artista, non indifferente al fascino degli oggetti e delle loro forme, trae le sue riflessioni e sperimentazioni proprio da quel bicchiere da cantina. Mezzo vuoto di vino, o riempito con i mari dell’emisfero, o con cardinali collocati sul bordo, è la chiave di lettura della sua ricerca artistica. Ricerca che continua a spogliarsi d’ogni orpello, per raggiungere il grado zero. Che è il silenzio. Che è il bianco (o il nero). Eccellente epigono dei dadaisti, Sabatini Odoardi va oltre la lezione avanguardista e spara al cuore della banalità, a quello che intorpidisce le menti e che rende l’individuo massa. Tra i principali bersagli c’è la religione, con la sua capacità di portare i popoli addirittura alle guerre, agli stermini, e comunque non in grado di spiegare esaustivamente il perché della nascita e della morte. “Non possono più essere raccontate delle favole. Non possono continuare a giocare con le menti delle persone. Qui non si gioca: andate a giocare da un’altra parte”, è ciò che Gino Sabatini Odoardi dice con convinzione.
Sceglie oggetti comuni, prelevati dalla quotidianità, ma anziché collocarli semplicemente in un diverso contesto da quello di appartenenza, vi interviene, investendoli di nuovi e propri significati. In questa ricca personale si respira appieno il lungo processo creativo e il faticoso percorso di esecuzione. Oltre cinquanta quadri, sette sculture, sei disegni, trentadue fotografie e un video. E sono proprio i cinquanta quadri che creano il “filo rosso” della ricerca dell’artista, caratterizzata da un procedere per sovrapposizioni.
L’idea di bloccare un oggetto era già stata sperimentata attraverso il sottovuoto. Ma il “rumore retinico”, come lo definisce Sabatini Odoardi, qui viene messo definitivamente a tacere con i pannelli bianchi opachi in polistirene, un materiale plastico altamente plasmabile quando è sufficientemente caldo. Pannelli che, attraverso la termoformatura, definitivamente “congelano” o “ibernano”, come dice l’artista stesso, un gran numero di oggetti comuni, diventando un unicum, di cui si può anche scegliere di apprezzare il puro valore estetico. Oggetti che non vengono cercati, ma, come insegna Picasso, trovati. Soli o in coppia, disposti l’uno di seguito all’altro, compongono come parole il racconto dell’artista. Un racconto interrotto da pause irregolari, che costringono a tenere vigile l’attenzione e a ri-elaborare di continuo l’iniziale chiave d’accesso, a metterla in discussione, a trovarne delle nuove.
Non mancano gli omaggi, o i rimandi, oggettivi o spirituali, a maestri reali, ideali o putativi: Man Ray, Marcel Duchamp, Fabio Mauri, Christo, Jannis Kounellis, Carmelo Bene, Biancaneve, solo per citarne alcuni. La macchina per cucire che incontra un ombrello, traduce tridimensionalmente l’Enigma di Isidore Ducasse di Man Ray; mentre la svastica costruita con i tasselli del domino, accompagnano una scultura di una testina classica, esprimendo l’assunto di Fabio Mauri che “anche nella bellezza c’è il male”. Male che trova espressione anche all’interno del nastro: tre pannelli neri con il noto bicchiere su una piccola mensola s’inseriscono fra quelli bianchi.
daniela trincia
mostra visitata il 4 agosto 2006
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