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Aste ibride, fiere online e musei che mettono in vendita le proprie collezioni: ne abbiamo parlato di continuo nel corso di quest’annata senza eguali. Tra punti di domanda infiniti, irrinunciabili nostalgie ed espressioni tutte nuove, ecco un breve viaggio attraverso il mercato dell’arte del 2020.
1. Aste cross-category (e l’immancabile diretta streaming)
Aste cross-category, quelle che uniscono lotti delle categorie e dei periodi più disparati, abbattendo ogni sorta di barriera. In altre parole: l’ennesimo sforzo delle case d’asta di reinventarsi, di adattarsi a mesi di incertezza, abbracciando con coraggio un pubblico sempre più segmentato. E così, dopo aver assistito alla migrazione degli incanti sul web, dopo esserci connessi alle vendite a staffetta tra Londra, New York, Parigi e Hong Kong, dopo aver ammirato le esposizioni pre-asta grazie ai più verosimili tour virtuali, abbiamo infine scoperto che trovare un dinosauro insieme alle opere di Picasso – nello stesso catalogo – sia tutt’altro che impossibile.
Ma Stan, il T-Rex vissuto 67 milioni di anni fa e inserito nella 20th Century Evening Sale di Christie’s, non è l’unico caso ibrido degli ultimi mesi. Qualche esempio? Intersect, l’asta di Phillips dello scorso settembre, dove capolavori dell’arte contemporanea hanno incontrato orologi e gioielli, con tanto di consigli su come abbinarli tra loro. E così Sotheby’s, che lo scorso 8 dicembre ha visto sfilare i maestri dell’Impressionismo, dell’Arte Moderna e Contemporanea in un unico incanto, scandendo oltre 100 anni in soli 25 lotti; e non dimentichiamo poi che a luglio, nell’asta Rembrandt to Richter, la stessa Sotheby’s aveva attraversato senza indugio mezzo millennio di storia dell’arte, totalizzando 150 milioni di sterline. Che sia merito di garanzie o meno, il mercato secondario ha raccolto i suoi frutti anche in questo 2020 senza stagioni, con tanto di record, primizie dell’arte e white gloves sensazionali.
2. Online Viewing Rooms
Anche le fiere – dopo una prima fase di stallo e annullamenti – sono riuscite a ritagliarsi una dimensione su misura in questo 2020 a zig-zag. Nessuna banana di Cattelan a far parlare di sé quest’anno, è vero, eppure Art Basel ha continuato a destreggiarsi a colpi di capolavori virtuali. David Zwirner, a giugno, ha venduto una Venere di Jeff Koons per 8 milioni, mentre la blue-chip di Gagosian ha registrato un acquisto da 5 milioni e mezzo per un dipinto di Cecily Brown. E non è tutto, perché proprio il formato digitale ha permesso di accogliere alcune realtà inedite, come le gallerie brasiliane che, grazie alla piattaforma Latitude, hanno preso parte ad Art Basel Miami, Untitled e Pinta Miami Live. Sarebbe stato possibile – ci chiediamo – nella versione tradizionale? Insomma, non tutto è andato perduto, e anche la pelle digitale di Frieze, a ottobre, sembra averlo confermato.
E in Italia? La risposta delle fiere, nel Bel Paese, non si è fatta attendere. ArtVerona ha concentrato le sue energie sulla nuova piattaforma Artshell, con tre appuntamenti “a colori” tra fine novembre e inizio gennaio; Artissima ha disseminato oltre 150 opere tra la GAM, Palazzo Madama e il Museo d’Arte Orientale, orchestrando uno straordinario evento diffuso – con vita brevissima per via dell’ennesimo DPCM, ma questa è un’altra storia – da accostare alla piattaforma cross-mediale XYZ; e ancora miart, che a settembre ha ricreato l’esperienza tradizionale attraverso 130 espositori virtuali. Insomma, che si tratti di Online Viewing Rooms o meno, la strategia delle fiere sembra piuttosto omogenea: restare collegate al proprio pubblico (e magari ampliarlo), non arrendersi, dare il meglio in uno stato di continua evoluzione.
3. Deaccessioning
È vero, si tratta di un fenomeno decisamente più americano che locale. Eppure la vendita delle collezioni museali è un gesto a dir poco emblematico del periodo che stiamo attraversando. Non sono bastati, oltreoceano, i prestiti del Paycheck Protection Program (PPP) per far fronte alla crisi: a partire dallo scorso aprile, l’Association of Art Museum Directors (AADM) ha dovuto concedere maggiori libertà circa il deaccessioning delle proprie opere, e questa scelta ha svelato le falle di un sistema più delicato di quanto non si credesse. Everson Museum, Brooklyn Museum, Baltimore Museum… la lista delle istituzioni che hanno approfittato della nuova disposizione si perde tra le pieghe degli ultimi mesi, con la messa all’asta di capolavori di Rothko, Warhol, Dubuffet, Monet – e molti altri ancora – e tante polemiche, dimissioni, ripensamenti a seguire.
Insomma, la questione è piuttosto intricata. Deaccessioning: opportunità per ridare linfa ai musei o minaccia di disperdere le collezioni? Era la domanda conclusiva del nostro articolo di novembre [qui], che adesso stiamo rivolgendo a direttori museali e ad altre voci autorevoli in un’inchiesta dedicata al fenomeno; e le risposte – come ci aspettavamo – sono tutt’altro che univoche. Quello che è sempre più chiaro, invece, è che l’idea di arte come asset class stia pian piano prendendo forma e sostanza. Anche in Italia, dove i beni dei musei statali sono vincolati, si assiste a soluzioni diametralmente opposte da parte degli attori privati, e così «Unicredit dismette le sue collezioni, mentre Banca Intesa investe e acquisisce» (ce ne parla Clarice Pecori Giraldi nella sua recente intervista). E chissà che con il 2021 non si concretizzi la proposta di realizzare meno mostre e con una durata sempre più lunga, come suggerisce Georgina Adam. Evitare di ricorrere a blockbuster dai prestiti costosi, insomma, valorizzando invece le collezioni locali; e noi ne abbiamo “da vendere” (metaforicamente, s’intende).
Interessante spaccato. Da seguire con attenzione, grazie Exibart