Non solo azioni militari ed economiche. In un momento quanto mai fragile e complesso della nostra Storia, l’imprenditore ed esperto di relazioni istituzionali Gaetano Castellini Curiel approfondisce l’importanza di “esportare” la cultura per rafforzare il ruolo geopolitico, il carisma, il potere delle singole nazioni. Nasce così Soft power e l’arte della diplomazia culturale, il nuovo volume edito da Le Lettere che – con uno sguardo al passato e la mente fissa sul presente – analizza la cultura come vera e propria «merce di scambio».
Iniziamo da una definizione. Che cosa si intende con le espressioni soft power e diplomazia culturale?
«La diplomazia culturale è un’arte che aiuta gli uomini a superare divisioni, tensioni politiche e pregiudizi, facendoli incontrare su un terreno che trascende i confini fisici e culturali, ove il dialogo e l’ascolto possono, finalmente, rifiorire. In un panorama politico internazionale caratterizzato da posizioni protezionistiche, pulsioni sovraniste e orientamenti nazionalisti, la cultura è una risorsa preziosa, capace di tenere aperto il dialogo internazionale, nel senso letterale di dialogo fra le nazioni. L’essenza della diplomazia culturale è poi connessa a un concetto più ampio, quello di soft power, termine coniato per la prima volta nel 2006 da Joseph Nye per valorizzare la dimensione immateriale del potenziale trasformativo del potere. Il soft power – spesso descritto come “l’altra faccia del potere” in un rapporto di contrapposizione e complementarietà rispetto all’hard power – è il potere dell’attrazione e dell’attenzione, che permette di conquistare i cuori e le menti di altre persone per far loro desiderare ciò che si vuole».
In che modo l’Italia, già in pieno Rinascimento, orchestrava azioni di diplomazia culturale? Il libro cita, tra gli altri, i casi di Francesco I e di Papa Giulio II…
«L’Italia è stata protagonista indiscussa della diplomazia culturale nel passato sin dalle origini, già dal XV secolo, dove gli stati italiani divennero dei fiorenti centri di formazione diplomatica a livello europeo. Le missioni diplomatiche divennero elementi fondamentali per tentare di garantire alle Signorie italiane la protezione dei propri interessi e la negoziazione delle questioni economiche e fiscali, cercando di mantenere intatto l’equilibrio politico raggiunto con la Pace di Lodi nel 1454 e la costituzione della Lega italica. Negli anni successivi Francesco I arricchirà le sue relazioni internazionali con una pratica singolare ed efficace: quella di donare a principi e regnanti i bronzi del Giambologna, elargiti come doni diplomatici di grande valore politico. Rimanendo sempre in epoca rinascimentale non si può non citare Giulio II della Rovere con i suoi intrecci fra politica e arte legati ai progetti di Renovatio dell’Urbe, nell’obiettivo di restituire a Roma e all’autorità papale la grandezza del passato imperiale. Altro primato italiano nella diplomazia culturale del passato è quello della musica classica e dell’opera dal ‘600 fino ad oggi. Basti pensare che l’italiano è la lingua della musica (allegro, vivace, concerto, ecc.), che nel ‘700 l’italiano era l’unica lingua della opera lirica e che autori e direttori d’orchestra sono ancora oggi celebrati nel mondo».
Possiamo ancora parlare di arte come merce di scambio? In quali termini?
«Sicuramente sì, come merce di scambio a livello culturale. Ne possiamo parlare su diversi livelli. Quello geopolitico dove, abbiamo visto recentemente, il governo francese ha aperto il Louvre ad Abu Dhabi e il Pompidou a Shanghai, includendo reciproci scambi in ambito artistico (ad esempio, le mostre); o dove la Cina, con il progetto “One belt one road”, vuole dar vita a una nuova Via della Seta costituendo un’asse culturale e infrastrutturale fra Cina, Europa ed Africa. A livello locale, per cui manifestazioni fieristiche nazionali di arte vengono esportate in altri Paesi rispetto a quello d’origine, come Art Basel e Frieze. A livello privatistico, con grandi aziende che investono in iniziative artistiche o su luoghi riconosciuti come icone per puro branding (Pirelli, Prada, LVMH, Della Valle, Generali, per fare alcuni esempi). Infine, anche a livello concettuale, dove i temi si spostano su concetti contemporanei quali la parità di genere o l’immigrazione».
«Manifesta si inserisce perfettamente in questo panorama partendo proprio dalla sua mission, quella di rappresentare e raccontare i cambiamenti politici, economici e sociali dalla fine della Guerra Fredda fino all’integrazione europea, utilizzando come strumento il dialogo fra arte e società in Europa. Il bene di scambio in questo caso rimane il dialogo culturale fra i popoli».
Un’ultima domanda. Chi sono oggi gli attori sulla scena della diplomazia culturale, i nuovi mecenati dell’arte?
«Anche qui per rispondere dobbiamo muoverci su livelli diversi. A livello geopolitico abbiamo Paesi che sono specializzati nell’utilizzo della diplomazia culturale, come – li menzionavo prima – la Francia e la Cina; ma anche gli USA, lo abbiamo visto solo pochi giorni fa con l’insediamento di Biden dove la musica e la poesia hanno prevalso su tutto, rendendo globali le canzoni di Lady Gaga e Jennifer Lopez e le rime di Amanda Gorman. C’è poi il caso della Corea del Sud che, schiacciata fra super potenze quali Cina e Giappone, ha dovuto creare un’agenzia governativa per la diplomazia culturale come strumento di promozione del proprio Paese; da queste Hallyu – le note “onde culturali coreane” – nascono fenomeni come i BTS del KPOP, artisti quali Do Ho Suh (la sua mostra a Washington ha avuto più di un milione di visitatori nel 2018) o ancora l’Oscar al film Parasite. A livello geolocale, invece, abbiamo Fondazioni e grandi aziende che fungono da nuovi mecenati dell’arte, basti pensare a quelle italiane come Prada con la sua Fondazione, a Pirelli con l’Hangar, e a quelle francesi come la Fondazione Picasso e la Fondazione LVMH».
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