Brett Gorvy, art dealer ed ex codirettore del dipartimento di arte contemporanea di Christie’s, sostiene che il colore di un’opera possa influenzarne il prezzo: un dipinto rosso venderà in teoria più di uno bianco, che varrà più di uno blu e poi, in ordine decrescente, di un esemplare giallo, verde o nero. Unica eccezione, sempre secondo Gorvy, è il caso di Andy Warhol, perché il verde è il colore dei soldi, e il denaro merita senz’altro uno dei posti più alti in una classifica simile. Insomma, in questi termini l’analisi cromatica si fa perfino interessante; viene da domandarsi perché un’opera rossa possa risultare più appetibile delle altre, se dipenda da una questione psicologica, storica, o forse da una sua proprietà intrinseca.
Immaginiamo, adesso, di proiettare questo discorso così leggero, quasi un divertissement per addetti ai lavori, su un altro colore, quello della pelle dell’artista. Sarebbe molto triste realizzare che anche questa variante – proprio come la tecnica, il formato e il curriculum espositivo – possa determinare il valore di un’opera sul mercato, e che il Paese d’origine costituisca un elemento discriminante, come fosse un freno a prescindere. Sarebbe molto triste dicevamo, e lo è, perché nel 2020, nell’anno in cui l’urlo Black Lives Matter risuona più forte che mai, l’“arte nera” costa ancora poco rispetto a quella “bianca”. E non importano gli entusiasmi diffusi e gli headlines che inneggiano a nuovi record, nell’arte come nella vita: la strada è lunga, e noi siamo troppo indietro.
Eppure, si diceva, i titoli dei giornali fanno sperare che la situazione sia davvero cambiata, che Black Lives Matter abbia un significato sempre più incisivo, anche nel mercato dell’arte. Nel 2015 El Anatsui (Anyako, Ghana, 1944) ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera; Abdoulaye Konaté (Dirè, Mali, 1953) parla di diritti umani attraverso il colore delle sue opere, conosciute in tutto il mondo; i lavori di Chéri Samba (Kinto M’Vuila, Repubblica Democratica del Congo, 1956) sono esposti al Pompidou di Parigi, al MoMA di New York e alla Contemporary African Art Collection di Ginevra; e, ovviamente, i grandi nomi come Irma Stern (Schweizer-Reneke, Sudafrica, 1894 -1966) e Ben Enwonwu (Onitsha, Nigeria, 1917-1994) continuano ad animare le aste, universalmente acclamati come i più grandi artisti africani. Non dimentichiamo poi talenti mid-career ed emergenti come Ibrahim Mahama (Tamale, Ghana, 1987), che ha impacchettato Porta Venezia a Milano, come un novello Christo; il giovanissimo Prince Gyasi (Accra, Ghana, 1995), che cattura i contrasti della sua città attraverso un iPhone; e Joana Choumali (Abidjan, Costa d’Avorio, 1974), la prima artista africana a vincere il prestigioso Prix Pictet, con una serie di immagini stampate su tela e ricamate.
Un capitolo a parte lo merita senz’altro Amoako Boafo (Accra, Ghana, 1984), che continua a farci sognare fin dal suo exploit da Phillips lo scorso febbraio, quando l’opera The Lemon Bathing Suit (2019) è stata aggiudicata per la cifra straordinaria di 662.509 € (stima: 36.136 €-60.228 €). Soltanto nel mese di luglio – dati Artprice alla mano – Boafo è comparso in asta ben 14 volte, con la vendita di Joy in Purple da Phillips per 480.988 € (Stima: 44.535 € – 62.350 €), l’aggiudicazione di Orange Shirt da Christie’s per 150.454 € (Stima: 35.400 € – 53.101 €) e altri risultati che superano sempre, costantemente, tutte le previsioni.
Anche dal mondo degli incanti, d’altronde, sembrano arrivare segnali positivi. C’è Black Art Auction, ad esempio, la casa d’aste fondata da Thom Pegg che si dedica esclusivamente alla vendita di African American Fine Art. E, ancora, troviamo dipartimenti specializzati tra le fila dei grandi players internazionali, da Sotheby’s a Christie’s a Bonhams; proprio dai risultati delle loro aste, tra l’altro, emerge che gli stessi collezionisti africani stiano sviluppando un nuovo gusto per l’arte locale, più che mai interessati a valorizzare le potenzialità della propria terra. Esiti incoraggianti, poi, dal mondo delle fiere, con eventi come Investec Cape Town Art Fair e FNB Art Joburg che attirano folle importanti; e anche da 1-54, giunta alla sua ottava edizione, attualmente in corso a Londra.
Ma non è tutto, c’è almeno un altro fenomeno attualissimo che vale la pena di nominare in questa ricognizione: istituzioni americane come l’Everson Museum of Art di Syracuse e il Baltimore Museum of Art hanno imboccato di recente la strada del deaccessioning, la vendita delle proprie opere per favorire l’acquisizione di nuovi lavori e diversificare le collezioni. Black Lives Matter, si diceva, e dal mercato dell’arte sembrano arrivare i primi risultati. E così, da qualche anno, nomi come Andy Warhol e Robert Rauschenberg vengono spodestati da artisti less white and less male, che danno voce a categorie meno rappresentate nel panorama artistico internazionale (prima fra tutte, neanche a dirlo, quella dell’arte africana). Insomma, a sentirla in questi termini pare che grandi collezioni come la CAAC di Jean Pigozzi presto non saranno più una rarità. E allora qual è il problema?
Una risposta significativa arriva proprio da 1-54, la fiera dedicata all’arte africana contemporanea e alla sua diaspora. L’edizione del 2019, visitata da 18.000 persone, ha visto i prezzi crescere fino al 200% delle stime originarie e si è urlato subito al successo, al gap risanato, alla rivincita. Ma la verità è un’altra ed è semplice da capire: i prezzi di partenza sono molto, troppo bassi, e le aggiudicazioni straordinarie delle opere non sono altro che un allineamento rispetto al loro effettivo valore. Non a caso, il collezionista Kenny Schachter, in un intervento su Artnet dello scorso luglio, parlava dei record in asta degli artisti di colore come di numeri facili, determinati dal fatto che le opere delle Black Lives «costano meno» e che, in questo senso, «sono ancora ben lontane dal mercato dell’arte». Una simile presa di posizione fa il paio con la voce di un’altra insider, l’artista Tschabalala Self, che in un’intervista ad Artsy ha definito il successo lampo dell’arte africana nelle aste uno spettacolo di cattivo gusto: «Sono scoraggiata dal fatto che le figure nere che ho realizzato e a cui ho dato forma siano ora vendute e commercializzate in un contesto simile».
Il rischio, in altre parole, è che le attenzioni che il mercato dedica a questi fenomeni vivano solo per il tempo di una scintilla, di una moda, per poi essere accantonati all’improvviso, quando la stagione è passata. E allora si tratta già in partenza di fuochi fatui, destinati a scomparire senza avere il tempo di alimentare la propria storia, di crescere davvero. Eppure – lo assicura Thom Pegg, il fondatore della Black Art Auction – lo scopo di chi ha a cuore l’arte africana è proprio quello di contestualizzarla, di inserirla nel solco di una storia che diventi imprescindibile dall’opera, lontana, quindi, da quella bulimia del possesso che nuoce agli artisti. Black Lives Matter, insomma, anche nel mondo dell’arte.
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