Leonora Carrington, la strega, l’incantatrice contemporanea. Ha le allucinazioni: vede giardini recintati da filo spinato, il sole e la luna che si fondono, un puledro bianco stramazzare al suolo. «Il puledro bianco ero io», scriverà nella sua autobiografia. A Santander, in Spagna, viene trattata a forza di Cardiazol. Oggi, a cento anni esatti dal Manifesto del Surrealismo di André Breton, il suo capolavoro assoluto sfida il martello di Sotheby’s, a New York, per $ 12-18 milioni.
Si intitola I piaceri di Dagoberto (1945), è tra le prime opere dell’esilio messicano. Carrington ne ha già superate tante a quel punto, si è spostata dall’Inghilterra alla Francia del Surrealismo, dove ha legato con Max Ernst, è stata internata in un manicomio in Spagna, è volata a New York, infine in Messico, insieme all’ondata di artisti in esilio – vedi alla voce Remedios Varo, Wolfgang Paalen, Alice Rahon. Qualcuno dice che Dagoberto, il re merovingio del VII secolo, sia in realtà il fantasma di Ernst. Così ossessionato dal sesso, dal lusso, dagli schianti violenti dell’amor fou. «Max, che dovevo sopprimere per potermi cercare un altro amante», lo confessava in Giù in fondo. Forse è una sorta di macchinoso addio.
Ed eccolo in mezzo alla scena, Dagoberto, nel grande dipinto infernale di Leonora. È parte di un racconto che fa il verso alle micro-scene della tradizione trecentesca italiana, alla cosmologia indigena messicana, alla Kabbalah, alla tanto amata alchimia – quella che approfondisce più di tutti con Varo. E poi ovviamente c’è la lezione di Bosch, i corpi ibridi che invadono la tela, senza alcuna prospettiva, i simboli alchemici sparpagliati tra le scene come una favola di fiamme, anime che fluttuano, acque che nascondono, terre rosse che bruciano. Terre sabbiose messicane.
Due anni dopo la Biennale di Cecilia Alemani che portava il nome del suo romanzo – Il latte dei sogni, pubblicato postumo nel 2013 – Leonora Carrington tenta il colpo grosso da Sotheby’s, con la Modern Evening Auction del 15 maggio, tra i grattacieli elettrici di Manhattan. Nessun dubbio sulla riuscita del record, l’opera è garantita, resta solo da raccogliere, e decifrare, il suo spasmo finale. Nel novembre 1995, sempre da Sotheby’s, sempre a New York, l’attuale proprietario la portava a casa per $ 475.500. Adesso, il momento perfetto per rimetterla in circolazione: l’attenzione sulle surrealiste è alle stelle, sortisce ancora i benefici della Biennale Arte 2022; e proprio I piaceri di Dagoberto era il dipinto di punta, quell’anno, di Surrealismo e Magia: la modernità incantata, la maxi mostra alla Guggenheim di Venezia a cura di Gražina Subelytė. Tradotto: ha acquisito valore.
Gli incastri di corpi, anfratti di storie, la volontà narrativa, eppure mai lineare. La tempera all’uovo, responsabile delle tinte iridescenti che esasperano il tableau. Era assillata dall’uovo, Leonora. Nella sua biografia, Giù in fondo, scriveva che «l’uovo è il macrocosmo e il microcosmo, la linea di frontiera tra grande e piccolo, che rende impossibile la visione del tutto». E allora lega il simbolo di rigenerazione, di rinascita, l’uovo, con la tecnica del suo quadro. Aggiunge un mostro a due teste, le scale della catabasi, giù in fondo, il triangolo rovesciato che è simbolo dell’acqua, vulcani spettrali. C’è tutto. «I piaceri di Dagoberto è il capolavoro definitivo della lunga carriera di Leonora Carrington», conferma Julian Dawes, Sotheby’s Head of Impressionist & Modern Art in New York. «Racchiude tutti i tratti distintivi dell’artista nella sua massima misura».
In attesa dello spasmo: risale al maggio 2022 il record attuale di Carrington, The Garden of Paracelsus (1957), primo riverbero del benedicente effetto-Biennale. Si fermava a quota $ 3,3 milioni, sotto il martello – niente a che vedere con I piaceri di Dagoberto, già soltanto la sua stima minima, stavolta, moltiplica per tre quel risultato milionario. Appuntamento – e fremito finale – a New York.
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