Fondata a Bergamo nel 1971 e co-diretta da Stefano Fumagalli e Annamaria Maggi a partire dal 1991, Galleria Fumagalli ha sempre promosso la ricerca di giovani artisti insieme al lavoro dei maestri storicizzati – con più di 80 mostre personali e 40 collettive che includono, tra i tanti, Enrico Castellani, Giò Pomodoro, Pino Pinelli e Kenneth Noland. Nel 2007 Annamaria Maggi ha assunto la piena direzione della galleria e nel 2016 è stata inaugurata la nuova sede di Milano, in un palazzo storico di via Bonaventura Cavalieri 6. Come si cambia, dunque, in 30 anni? Lo abbiamo domandato proprio a lei.
30 anni. La prima domanda è quasi d’obbligo: come è cambiato il sistema dell’arte dal 1991 ad oggi?
«È sempre complesso parlare di “sistema dell’arte”, specialmente ora che gli attori sono tanti e così diversi tra loro. Li suddividerei in 4 macroaree: galleristi, fiere, mercanti e case d’asta – gli ultimi due muovono senz’altro i volumi d’affari più consistenti. Le differenze rispetto al passato sono molte… Per dirne una, negli anni ‘90 alle aste partecipavano gli addetti del settore, non i privati. Oggi invece tutti accedono con una facilità incredibile, anche con un click, e ci sono vendite di qualsiasi cosa lanciate da altrettante case d’asta. In generale direi che prima le gallerie e gli artisti erano i protagonisti della filiera, mentre oggi è il business l’aspetto più importante. Per un gallerista anche quello è necessario, ma non costituisce l’elemento principale – che è invece la promozione degli artisti, la possibilità di instaurare un contatto diretto con il collezionista…».
Parliamo di loro, allora, dei collezionisti.
«Negli anni ’90 i rapporti con chi collezionava erano stretti, duraturi, anche di amicizia devo dire. Erano fedeli alla galleria che sceglievano, compravano a tutte le mostre, si affidavano davvero a noi galleristi – un po’ come fossimo delle guide. Purtroppo questo è sempre più raro, i collezionisti preferiscono spesso il fai-da-te. “Quanto varrà l’opera tra 5, 10, 15 anni?”, sono queste le domande più frequenti oggi».
Per quanto riguarda il rapporto con gli artisti, invece? Lei ha collaborato con nomi come Castellani, Accardi, Kounellis…
«Abbiamo avuto la fortuna di cogliere la coda degli anni ’90, il momento in cui questi grandi maestri avevano già un curriculum straordinario, però erano relativamente giovani e volevano ancora mettersi in gioco. Passavamo le giornate a parlare, a studiare progetti insieme, era una collaborazione di estremo coinvolgimento e di passione. Devo dire che questo tipo di rapporto, con gli artisti, è rimasto invariato».
Il curatore Lóránd Hegyi omaggia questi 30 anni con il programma MY30YEARS – Coherency in Diversity. In che cosa consiste?
«All’inizio non avevo un piano preciso su come festeggiare questi anni di attività, poi ho pensato che sarebbe stato banale raccontare la mia stessa storia. Ho lasciato che fosse Lóránd Hegyi a farlo – e sono molto contenta di questa decisione. MY30YEARS – Coherency in Diversity è un ciclo di 8 mostre collettive previste dal 2021 fino al 2023, con 12 artisti seguiti o rappresentati dalla Galleria Fumagalli. L’idea è quella di mettere a confronto 3 nomi ogni volta, giovani talenti che si ritrovano a dialogare con maestri già affermati per evidenziare affinità e differenze. È questo il gioco che vogliamo attivare».
Quindi che cosa vedremo questo autunno?
«Da settembre la galleria ospita le opere di Enrico Castellani, Maurizio Nannucci e Peter Wuethrich nella mostra SISTEMA – DEMATERIALIZZAZIONE – TESTO. Non è una visione rigida, vorrei che ogni visitatore volesse e potesse darne una personale interpretazione. Il fil rouge, in generale, è quello del testo».
Per concludere, un episodio in questi 30 anni che le farebbe piacere condividere.
«Ero a cena con alcuni amici e c’era anche Agostino Bonalumi, una persona piacevolissima da ascoltare. Raccontava sempre aneddoti e io gli facevo una valanga di domande. Quella sera mi disse: “Perché tutte queste cose che ti sto dicendo non le scrivi?”. E io da allora, per tanti anni, l’ho fatto davvero. Giravo costantemente con carta e penna e riportavo i discorsi degli artisti. Ogni cosa, anche le più quotidiane, banali. Un giorno stavo parlando con Giuseppe Uncini e lui mi ha chiesto, stupito: “Ma tu trascrivi davvero tutto quello che dico?”».
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