Si chiama deaccessioning e si verifica quando un museo vende un pezzo della propria collezione per ricavare i fondi con i quali rinnovarla. Si legge polemica – puntualmente – perché descrive un’alternativa sofferta a quei finanziamenti esterni che non sono mai abbastanza. E così l’Everson Museum di Syracuse si aggiunge alla lista dei musei che ricorrono a questa pratica “incriminata” (deaccessioning o de-accessione, in italiano) annunciando la vendita di un Jackson Pollock all’asta di Christie’s del prossimo ottobre.
Con una stima compresa tra i $ 12 e i $ 18 milioni, il ricavato di Red composition (1946) consentirà all’istituzione newyorkese di acquistare opere di donne, di artisti di colore e di quelle categorie che certamente risultano sottorappresentate, nelle sale espositive come nel mercato dell’arte. «Grazie alla vendita di una singola opera», spiega la direttrice dell’Everson, Elizabeth Dunbar, «possiamo fare enormi passi avanti nel costruire una collezione che rifletta la nostra comunità e che rimanga accessibile a tutti per le generazioni a venire».
Ma non finisce qui: secondo un’altra dichiarazione, la decisione dell’Everson trova un contesto significativo «in questa fase critica nella storia della nazione e in un momento in cui il museo sta lavorando attivamente per affrontare la disuguaglianza all’interno dell’istituzione e della comunità ». Alla luce degli scontri ideologici e sociali che stanno scuotendo il mondo intero, il museo americano sembra voler fare la sua parte e si schiera in modo del tutto personale, esponendo con orgoglio la bellezza della diversità . Per farlo, però, deve riorganizzare il suo patrimonio, a costo di perdere un pezzo prezioso della propria collezione. Anche se quel pezzo si chiama Jackson Pollock.
D’altronde, si diceva, quello dell’Everson Museum non è il primo episodio di deaccessioning. Il SFMOMA, San Francisco Museum of Modern Art, ha venduto proprio l’anno scorso un Mark Rothko da 50 milioni di dollari e ne ha ricavato 11 opere più vicine alla mission della collezione; il Baltimore Museum of Art nel 2018 ha ceduto ben 7 lavori – tra cui un Andy Warhol e un Robert Rauschenberg – per finanziare opere di donne e artisti di colore; e, ancora, l’elenco annovera il Georgia O’Keeffe Museum di Santa Fe, il Museum of Modern Art di Rio de Janeiro, la Chicago Public Library (che in realtà ha ritirato all’ultimo la propria opera dall’asta per il tripudio di polemiche scoppiate intorno al caso). Insomma, queste operazioni sembrano seguire una linea ben precisa, con il trasferimento di beni pubblici in mani private per ottenere liquidi e ripensare alle collezioni in una chiave più attuale.
Nessun impedimento dal punto di vista burocratico, ovviamente. L’American Alliance of Museums (AAM), a cui il museo Everson è accreditato, osserva che: «I proventi della vendita di collezioni devono essere utilizzati in conformità con gli standard stabiliti dalla disciplina del museo, ma in nessun caso devono essere utilizzati per nient’altro che l’acquisizione o la cura diretta delle collezioni». «La decisione di attuare il deaccessioning», fa eco ICOM, nelle linee guida che tracciano il suo codice etico, «può essere presa esclusivamente per migliorare la qualità , la portata e l’appropriatezza della collezione e per sostenere la missione e gli obiettivi a lungo termine del museo».
Insomma, mai dare nulla per scontato. Nemmeno un’opera che abbiamo sempre associato a un museo e che, da un giorno all’altro, può diventare un bene esclusivo. La boutade di vendere la Gioconda per 50 miliardi vi suona familiare, forse?
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