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Deaccessioning, la tanto discussa vendita delle collezioni museali. Nell’articolo pubblicato sul n. 110 di exibart.onpaper (potete recuperarlo qui) ci eravamo lasciati con una domanda: «Come potrebbe essere accolto il deaccessioning in Italia, la culla della cultura, la patria di quei nomi che hanno fatto grande la Storia dell’arte? Sarebbe inteso come un’opportunità per rafforzare l’economia, sul modello americano? Oppure come una minaccia, con il rischio di disperdere le collezioni?». Lo abbiamo chiesto proprio a loro, ai direttori museali italiani, per scoprire da vicino un fenomeno decisamente controverso; e poi ci siamo spinti oltre i confini, in giro per l’Europa, per ampliare la nostra prospettiva.
Intervista a Lorenzo Giusti, direttore della GAMeC di Bergamo
E voi, alla GAMeC, come vedreste il deaccessioning? Come un’opportunità per risollevare l’economia e ridare linfa al museo, specialmente in questo momento difficile? O più come una minaccia, con il rischio di disperdere le collezioni?
«Sono fondamentalmente contrario alla cessione del patrimonio pubblico ai privati, vedo un grande rischio dietro a una possibile revisione del codice dei beni culturali in questa direzione – un aspetto che peraltro non mi pare sia realmente in discussione – soprattutto in un paese come l’Italia, che nei secoli passati è stato in più occasioni, e per ragioni diverse, depredato di tanti suoi beni. E sono d’accordo con Carolyn Christov-Bakargiev quando dice che un certo freno alle vendite andrebbe posto anche a tutti quei musei privati che ricevono finanziamenti pubblici. Il modello europeo ha dimostrato di essere più efficace di quello americano sul piano della tutela del patrimonio artistico, mi concentrerei piuttosto sul tema della valorizzazione, che ha ancora ampi margini di intervento».
I musei americani, spesso, hanno optato per la vendita di grandi nomi (Brice Marden, Mark Rothko e Robert Rauschenberg, solo per citarne alcuni). Voi ci avete mai pensato? Quali opere sottoporreste al deaccessioning? Con quale logica?
«L’unica possibilità di movimento del patrimonio pubblico che mi sentirei di valutare è quella verso altri patrimoni pubblici e con il fine ultimo di incrementare il patrimonio stesso, non di eroderlo. Anche questo comporterebbe inevitabilmente dei rischi, ma altrettante potrebbero essere le opportunità. Si potrebbe obbligare l’istituzione che vende a investire il ricavato in nuove acquisizioni. In questo modo, per esempio, una collezione ricca di opere di un determinato artista o di un determinato periodo e povera di altri beni potrebbe colmare alcune lacune, rendere più interessante i propri percorsi museali. Ci sarebbero comunque tante valutazioni da fare, nel rispetto delle comunità che hanno contribuito a dotare i musei delle proprie raccolte. Non sarebbe sicuramente un percorso facile, ma qualche riflessione in questo senso andrebbe fatta».
Se non proprio al deaccessioning, avete mai considerato la cessione a terzi dell’uso di qualche bene del museo? Potrebbe trattarsi di una soluzione proficua, anche a livello finanziario? Penso ad esempio alle opere nei magazzini, che non trovano spazio nelle sale espositive e potrebbero essere valorizzate altrove…
«Questo accade ormai regolarmente. In maniera spontanea – salvo eccezioni – i musei stanno andando verso l’adozione di codici di comportamento comuni. Si concedono prestiti, anche a lungo temine, per cui si richiedono loan fee, si “vendono” progetti di mostre, pubblicazioni, si incassano diritti, si recuperano risorse spese per la produzione di opere… Qualche anno fa, con il coordinamento di Letizia Ragaglia, AMACI ha provato a dotarsi si un protocollo interno di indirizzo per i musei pubblici del contemporaneo. Non è un documento ufficiale – i musei della rete sono molto diversi tra loro – ma il confronto su questi temi è stato estremamente utile. Conservare un patrimonio di valore ha sicuramente dei costi, ma può anche garantire dei ricavi significativi».
Un’ultima domanda sugli scenari futuri, in questo presente di continui stravolgimenti. Esistono alternative efficaci al deaccessioning per garantire la salute del settore museale?
«L’Art Bonus è lo strumento più utile a nostra disposizione. Il suo effetto positivo sui bilanci dei musei si è manifestato immediatamente, soprattutto nei territori più ricchi di imprese – ma credo che ci siano ancora ampi margini di crescita. Occorre continuare a sensibilizzare le aziende e diffondere sempre di più la conoscenza di questa risorsa. Ritengo fondamentale che a beneficiarne continuino a essere i soli musei che conservano e valorizzano collezioni pubbliche, mentre per aiutare i musei privati si possono eventualmente mettere in campo altri strumenti».
Potete leggere l’inchiesta sul deaccessioning sul nuovo numero di exibart.onpaper oppure sulla versione pdf, scaricandola qui: exibart 111