Deaccessioning, la tanto discussa vendita delle collezioni museali. Nell’articolo pubblicato sul n. 110 di exibart.onpaper (potete recuperarlo qui) ci eravamo lasciati con una domanda: «Come potrebbe essere accolto il deaccessioning in Italia, la culla della cultura, la patria di quei nomi che hanno fatto grande la Storia dell’arte? Sarebbe inteso come un’opportunità per rafforzare l’economia, sul modello americano? Oppure come una minaccia, con il rischio di disperdere le collezioni?». Lo abbiamo chiesto proprio a loro, ai direttori museali italiani, per scoprire da vicino un fenomeno decisamente controverso; e poi ci siamo spinti oltre i confini, in giro per l’Europa, per ampliare la nostra prospettiva.
Qual è la sua opinione sul deaccessioning americano? Il recente allentamento delle norme è da intendersi come un’opportunità? O piuttosto come una minaccia, con il rischio di disperdere le collezioni?
«Dall’Europa, o almeno da una collezione pubblica europea, la risposta è facile. Negli Stati Uniti può essere diverso, ma non da questa parte dell’Atlantico. Non si può considerare: i regolamenti lo impediscono, ed è molto ragionevole che sia così. L’idea genererebbe una serie di effetti indesiderati e un riposizionamento politico dell’istituzione che potrebbe annullare gran parte del suo significato. In primo luogo, perché la allontanerebbe dalla sua condizione fondamentale di servizio pubblico. E questo mi porta direttamente alla seconda ragione: diventare un agente che opera nel mercato implicherebbe disegnare una storia adattata al mercato stesso. Se esistono collezioni pubbliche è proprio per non dipendere da esse. Inoltre, si creerebbe una pericolosa dinamica di speculazione: il museo che compra con un occhio alla vendita successiva. C’è una nozione fondamentale nella cura del patrimonio ed è che dobbiamo conservare ogni pezzo come se fosse il più prezioso. Quindi quale vendiamo?».
Diversi musei hanno optato per la vendita di grandi nomi delle proprie collezioni. Non avete mai pensato a quale opera sottoporreste al deaccessioning e a quali criteri seguireste, se fosse possibile? Vendereste un solo capolavoro o più lavori minori, ad esempio?
«No. Non venderei mai nessuna opera della nostra collezione».
Nel tentativo di mantenere vivi i musei e il mondo dell’arte in tempi così difficili, crede esistano alternative ragionevoli al deaccessioning che potrebbero avere la stessa efficacia?
«La crisi attuale dà ragione a chi ha resistito al modello neoliberista, che qualifica il successo in virtù di valori non tipici di un’istituzione pubblica. La soluzione non è che chi si trovava in un terreno altamente speculativo trovi il modo di continuare a fare lo stesso lavoro. Vendere opere per fare lo stesso tipo di programmi e alimentare una macchina impossibile da fermare? La risposta deve essere invece rintracciata in modelli sostenibili che rispondano alle aspettative delle circoscrizioni che vogliono sia trovare conforto nelle difficoltà di un’epoca, sia servire da specchio alla situazione politica in cui viviamo. I rischi involutivi, la precarietà della nostra condizione di cittadini e l’allarme per la situazione estrema del pianeta segnano il cammino delle istituzioni nei prossimi decenni. Dobbiamo persistere nella costruzione – mano nella mano con l’arte, la cultura e il pensiero critico – di una società libera, democratica e solidale. Per quanto riguarda il museo, parte della strategia nasce dal cambiamento dell’asse gravitazionale della sua attività. Cosa accadrebbe se mettessimo le relazioni al centro del suo funzionamento? Le sue mansioni tradizionali – conservazione, interpretazione, mediazione – devono essere difese, ma nella prospettiva di tutti i gruppi coinvolti: principalmente il pubblico, ma anche i suoi organi di governo, la sua squadra, le comunità che lo circondano, gli artisti, l’accademia. Ognuno deve essere inteso come una realtà in continua evoluzione che richiede molto più che sperimentare un contenuto predefinito e spesso prevedibile».
Potete leggere l’inchiesta sul deaccessioning sull’ultimo numero di exibart.onpaper oppure sulla versione pdf, scaricandola qui: exibart 111
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