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Tornano i colossi fieristici Frieze London e Frieze Masters, e con questi uno degli appuntamenti a cielo aperto più tradizionali – e accessibili – del mondo dell’arte. È tempo di Frieze Sculpture a Regent’s Park, l’iniziativa di arte pubblica di Londra festeggia nel 2024 la sua 12esima edizione. I protagonisti? 22 artisti provenienti da 5 continenti e le loro installazioni monumentali sparpagliate nel parco, senza limiti tra nomi storicizzati e contemporanei, temi, dimensioni, materiali. «La Frieze Sculpture di quest’anno», rivela la curatrice Fatoş Üstek, «presenta approcci artistici audaci e sperimentali. Scolpisce anche uno spazio per incontri giocosi, temi socialmente e ambientalmente consapevoli, nonché pratiche concettuali e spirituali che ampliano la nozione di scultura pubblica. Con programmi pubblici e collaborazioni tra le organizzazioni di Londra, l’edizione 2024 di Frieze Sculpture ha più che mai da offrire». Fino al 27 ottobre.
Qualche esempio? Senz’altro la scultura in bronzo di grandi dimensioni ad opera di Zanele Muholi, si intitola Bambatha I (2023), la presenta Southern Guild ed è «un toccante promemoria del disagio somatico, dell’ansia e della depressione che derivano dall’incongruenza con il proprio corpo», rivelano da Frieze. È stata realizzata per l’omonima mostra personale di Muholi alla Southern Guild Cape Town nel 2023, una personale che ha richiesto nuovi riti di autoespressione, sessualità, maternità e guarigione che «inaugurano modalità di sopravvivenza più gentili nel nostro mondo contemporaneo». La mostra, che si è spostata a Los Angeles nel maggio 2024, è stata in parte una risposta al femminicidio in corso in Sudafrica, alla stigmatizzazione delle comunità LGBTQI+ e alla proliferazione della violenza di genere.
C’è anche The Dancer (2011) di Leonora Carrington tra gli highlights sparpagliati per Regent’s Park. La figura della danzatrice appare per la prima volta nei dipinti di Leonora Carrington degli anni ’50, nel dipinto del 1954 intitolato Figuras Míticas, Dancer II. E non è un caso che anche André Breton, il firmatario del (centenario) manifesto del Surrealismo, abbia ammirato l’energia delle danzatrici in L’art magique del 1957: «Vorrei avere ali, una conchiglia, una corteccia», scrisse, «respirare fumo, avere una proboscide di elefante, torcere il mio corpo, essere diviso in molte parti, essere in ogni cosa, emanare come un aroma, svilupparsi come una pianta, versare come l’acqua, vibrare come il suono, brillare come la luce, rannicchiarsi sotto tutte le forme, penetrare ogni atomo…». A presentarla, a Londra, è rossogranada.
Prosegue la passeggiata nel parco. Si chiama The Ghaf Tree la scultura di Mohamed Ahmed Ibrahim selezionata da Lawrie Shabibi , è la sua personale interpretazione del Ghaf, l’albero resistente alla siccità che può sopravvivere anche in un deserto. Ha un significato culturale negli Emirati Arabi: simboleggia resilienza, forza, sostenibilità, incarna un legame profondo con la natura. Da qui, la trasposizione di Ibrahim, che seleziona colori che si armonizzano con il lavoro che sta creando, infondendo in ogni pezzo un senso di meraviglia infantile e una visione del mondo che trabocca di esuberanza. Eppure «emerge un senso di contemplazione, di riflessione, una profondità che deriva sia dalle sue esperienze personali sia dal tipo di memoria innata che si trova nel nostro DNA, che descrive una sorta di “impulso primitivo”».
Ancora un pit-stop: Materials of Mind Theatre, il progetto teatrale dell’artista turca İnci Eviner (rappresentava la Turchia alla 58esima Biennale di Venezia, nel 2019) composto da 25 sculture in argilla e ceramica che ricordano costumi, accatastati su una piattaforma che è un po’ palcoscenico, un po’ piedistallo piedistallo. Proprio come il risultato finale: un po’ scultura, un po’ performance teatrale. Eviner invita il pubblico a immaginare le proprie narrazioni, a riconsiderare i ruoli più standard, immersi in contesti sempre nuovi.
Chiude il giro Ennui Head (2020) di Yoshitomo Nara, lo rappresenta il colosso Pace Gallery. Fa parte di un gruppo di teste monumentali che sono ingrandimenti delle stesse sculture – a portata di mano – che l’artista scolpisce a mano. «Volevo solo mettere tutta la mia energia nel pensare con le mani», ha spiegato Nara. «Ho iniziato a lavorare su un’enorme massa di argilla per realizzare sculture in bronzo. Mi ha aiutato: di conseguenza ho recuperato le mie mani per dipingere attraverso questo processo». Il titolo? Fa riferimento al concetto francese di ennui, una noia, un’insoddisfazione esistenziale. Quella stessa noia di Ennui Head, che indossa un’espressione ambigua, caratteristica della disarmante illeggibilità delle figure di Nara.