Vi ricordate la boutade dello scorso maggio? Quella proposta di «vendere la Gioconda per non vendere il mondo intero»? Ebbene, le analisi di Intesa Sanpaolo Private Banking ribadiscono che sì, l’arte può davvero giocare un ruolo fondamentale in questa ripresa. E abbiamo una cifra esatta: Gregorio De Felice, Head of Research e Chief Economist di Intesa Sanpaolo, indica che il mercato dell’arte mondiale vale 64 miliardi di dollari (circa 52 miliardi di euro).
Ma andiamo con ordine. Intesa Sanpaolo ha lanciato Collezionisti e il valore dell’arte in Italia, il primo numero di una collana editoriale edita da Gallerie d’Italia/Skira che approfondisce le sfaccettature di un mondo estremamente frastagliato. E così, dalla presentazione del progetto (qui), scopriamo l’ultimo identikit di un mercato che non è più solo “bene di rifugio”: una realtà sempre più trasparente, con informazioni accessibili e disponibili, un modo intelligente per diversificare le proprie ricchezze, con vendite vivaci che arrivano rapidamente da una parte all’altra del pianeta. In poche parole: un mercato globale. Secondo i dati del 2019, quello degli artisti del Dopoguerra e dell’Arte Contemporanea in generale – spiega Gregorio De Felice – è il segmento più attivo, con una predilezione per gli artisti viventi (circa il 47% dell’attenzione). Un’altra caratteristica importante riguarda gli scambi: molto avviene sul mercato americano (circa il 40%), seguito dal Regno Unito (22%) e dalla presenza incisiva della Cina, con la Francia che tenta di spadroneggiare l’UK e punta tutto sulla Brexit. E l’Italia? «I dati del 2020 saranno disponibili a fine febbraio», spiega Tommaso Corcos, Amministratore Delegato Fideuram Intesa Sanpaolo Private Banking, «ma già ora possiamo dire che il nostro Paese muove all’incirca l’1% del mercato globale dei beni artistici». E non solo, perché molti collezionisti italiani comprano direttamente su piazze estere e quindi i dati non vengono ripresi dalle statistiche: «È un mercato che può sembrare piccolo», aggiunge Gregorio De Felice, «ma in realtà non lo è».
Guido Guerzoni, docente dell’Università Bocconi e co-autore del volume, riporta un identikit del collezionista italiano: un profilo molto interessante da analizzare, ma complesso per via della riservatezza dei soggetti coinvolti e della letteratura limitata. Ebbene, finalmente possiamo dare un volto all’acquirente tipo. È un uomo (75%), ha un’età media di 58 anni, è laureato, risiede nel Nord del Paese (58%). Queste – spiega Guerzoni – erano le connotazioni attese. Ma c’è anche qualche sorpresa, come una risposta femminile crescente (quasi il 36% dei partecipanti all’indagine) che va allineandosi con il trend nord-europeo e americano.
Ma come si compongono le collezioni italiane? Guerzoni racconta che la tendenza preponderante sia quella di accumulare arte contemporanea, ma che in realtà sia l’eclettismo la peculiarità spiccata: gli italiani comprano arte, fotografia, design, sovrappongono opere di periodi diversi (un po’ per interesse e un po’ perché non dismettono le collezioni di famiglia, arricchendole sempre più). Il 35% del campione analizzato possiede tra le 100 e le 250 opere, ne acquista tra le 8 e le 10 in media all’anno e più della metà afferma di dedicare a questa attività oltre il 50% del proprio tempo libero. Il motivo? Secondo il 98%, per “passione personale e sensibilità all’arte”, ma 3 persone su 10 affermano di essere interessate anche all’aspetto di natura economica. Passione, sì, ma con una consapevolezza crescente, e sempre più sostenuta dall’occhio esperto degli art advisor. Non dimentichiamo infine l’avvento dei Millennials: un pubblico giovane che era «intimidito dal clima che si respirava in passato», nelle aste tradizionali, e che ora può scalare il mercato a colpi di click.
Chiudono il cerchio le parole di Michele Coppola, Executive Director Arte Cultura e Beni Storici Intesa Sanpaolo: «L’arte», rivela alla stampa, «è un patrimonio, è un asset che va valorizzato in chiave strategica per il Paese. C’è innanzitutto un valore storico, critico e artistico, ma non si può non riconoscere un valore economico, che non deve in qualche modo mettere in secondo piano le ragioni storiche, critiche e artistiche con le quali si giudica e si misura un’opera d’arte, ma deve contribuire ad assegnarne la centralità anche in una logica aziendale, in una logica d’impresa».
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